Il 2 ottobre scorso, la sezione lavoro della Corte di Cassazione, nel decidere su un'impugnativa di licenziamento, ha enunciato due importanti principi in tema di insubordinazione e di salario minimo.
Ad investire la Corte dell'esame delle due questioni è stato un lavoratore, al quale la Corte d'Appello di Torino aveva integralmente riformato la sentenza del primo grado che, in accoglimento del suo ricorso, aveva accertato l'illegittimità del licenziamento disciplinare intimatogli e condannato la società datrice al pagamento sia dell'indennità di legge che delle differenze retributive.
Secondo la Corte territoriale, l'invio all'amministratore unico della società datrice di lavoro, sulla chat whatsapp, di una serie di messaggi ingiuriosi e minacciosi, integrava una giusta causa di licenziamento, soprattutto tenendo conto che, trattandosi di una chat di gruppo, le invettive avevano leso anche la credibilità dell'amministratore.
Quanto al riconoscimento del superiore trattamento retributivo, la Corte d'Appello aveva ritenuto che lo scarto tra paga costituzionale full time (€ 817,1309) e il parametro Istat di povertà assoluta indicato dal ricorrente (€ 834,00) fosse insignificante, poiché il richiedente aveva percepito solo 16,8691 euro in meno dal reddito indicato come soglia di povertà e che, di conseguenza, andasse riformato anche il capo della sentenza di primo grado che aveva condannato la società datrice al pagamento delle differenze retributive.
Investita del ricorso proposto dal lavoratore, la Cassazione, quanto alla illegittimità del licenziamento, ha ritenuto la valutazione operata dalla Corte territoriale sulla contestazione disciplinare, gravemente viziata nella premessa, per omessa valorizzazione del contesto; non avendo il giudice di seconde cure tenuto conto del fatto che il lavoratore avesse inviato i messaggi ingiuriosi e minacciosi solo dopo averne ricevuto uno,poco prima e di notte, dallo stesso datore di lavoro, che lo aveva escluso dal ruolo di referente aziendale evidentemente in ragione del fatto che il lavoratore si fosse permesso di rivendicare le proprie giuste spettanze retributive.
Secondo la Cassazione, la Corte territoriale non aveva colto l'illiceità del contesto, così implicitamente consentendo che si potesse discriminare un lavoratore, escludendolo da una chat aziendale, solo perché chiedeva il pagamento di spettanze dovute, ottenendo immediatamente la stessa rimozione da un incarico fin lì rivestito, attraverso comportamenti palesemente ritorsivi.
Errata, secondo i giudici di legittimità, anche la valutazione giuridica dell'accaduto alla stregua della fattispecie dell'insubordinazione, posto che, secondo un consolidato orientamento interpretativo, non costituisce insubordinazione l'offesa verbale che non implica mancata esecuzione della prestazione e che in ogni caso non si inserisca nel contesto aziendale e che sia stata commessa fuori dal rapporto di lavoro e non attiene all'esecuzione di disposizioni aziendali. Solo una visione dispotica del rapporto di lavoro configura una insubordinazione in ogni genere di offesa verbale ad un proprio superiore, anche al di fuori dal contesto aziendale.
L'insubordinazione, si legge nella sentenza in commento, va giudicata in relazione ad una condotta di inadempimento all'interno del contesto aziendale, atta a pregiudicare l'esecuzione e il corretto svolgimento delle suddette disposizioni nel quadro dell'organizzazione aziendale, essendo, in mancanza, inidonea a ledere definitivamente la fiducia alla base del rapporto di lavoro, non integrando violazione del dovere di fedeltà posto dall'art. 2105 c.c., né, tanto meno, giusta causa di licenziamento.
Nel caso di specie, prosegue la motivazione, la sentenza della corte d'appello non aveva considerato che la contestazione era stata elevata alla luce di un comportamento che, nel contesto in cui si erano svolti i fatti, costituiva una reazione verbale emotiva ad un comportamento datoriale illecito e, dunque, scriminata ai sensi dell'art. 599 c.p..
Quanto al mancato riconoscimento delle differenze retributive, i giudici di legittimità hanno ritenuto che l'accertamento del diritto ad un superiore trattamento retributivo non può essere fondato sul mero raffronto con l'indice Istat di povertà, perché tale modo di ragionare non spiega in alcun modo come possa una paga un po' inferiore all'indice di povertà assoluta essere rispondente al parametro costituzionale di sufficienza e proporzionalità ed hanno, altresì, elaborato i due seguenti criteri di massima cui il giudice del rinvio dovrà attenersi nel decidere la controversia:
- ai fini della determinazione del giusto salario minimo costituzionale, il giudice, in via preliminare, deve fare riferimento, quali parametri di commisurazione, alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può motivatamente discostarsi, anche ex officio, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall'art. 36 Cost., anche se il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile al caso concreto sia contemplato in una legge, di cui il giudice è tenuto a dare una interpretazione costituzionalmente orientata.
- nell'opera di verifica della retribuzione minima adeguata ex art. 36 della Costituzione, il giudice, nell'ambito dei propri poteri ex art. 2099, comma 2, c.c., può fare altresì riferimento, all'occorrenza, sia al trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi o settori affini o per mansioni analoghe, sia ad indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022.
Secondo la Suprema Corte, dunque, l'accertamento sull'adeguatezza e proporzionalità della retribuzione non è precluso dall'applicazione dei livelli retributivi previsti dalla contrattazione collettiva, e ciò indipendentemente dal richiamo di tale contrattazione collettiva da parte di una previsione legislativa ed a prescindere dal carattere "pirata" del contratto collettivo medesimo.
La retribuzione deve assicurare una vita dignitosa e non può essere ragguagliata alla soglia di povertà, perché da un simile criterio di comparazione deriva quel "lavoro povero" che non assolve più alla sua funzione essenziale, ma solo ad esigenze di mercato e competitività.
Bene, perciò, ha fatto la Cassazione nel ritenere insussistente la fattispecie dell'insubordinazione nei confronti di un dipendente che, seppure con toni accesi, non ha fatto altro che rivendicare il proprio diritto ad una retribuzione che restituisse al lavoro il carattere che gli è proprio: quello di realizzare il progresso materiale e spirituale di ciascuno.