Si parla di recidiva quando un soggetto, dopo essere stato condannato per un delitto non colposo, ne commette un altro. La disciplina dell'istituto è contenuta all'interno dell'art. 99 c.p.
In linea di prima approssimazione, si ha recidiva, quindi, nel caso di "ricaduta" nel reato, ovvero quando il soggetto commette un nuovo reato dopo essere stato condannato per la realizzazione di un altro reato.
Il primo presupposto dell'istituto è, appunto, che vi sia stata una precedente condanna per un reato. Affinché si possa avere la recida non è, però, sufficiente che il soggetto abbia commesso un precedente reato, ma occorre, altresì, che quest'ultimo sia stato accertato giudizialmente e che la relativa sentenza sia passata in giudicato. Potrà trattarsi anche di una sentenza emessa da un'Autorità straniera (c.d. recidiva internazionale). In questo caso, si ritiene che sia necessario che la sentenza penale straniera sia riconosciuta dall'ordinamento italiano.
Tale riconoscimento, secondo parte della dottrina, è necessario per la dichiarazione della recidiva, non potendo ricavarsi la precedente condanna da parte di un ordinamento diverso dal nostro dalla mera iscrizione nel casellario giudiziale della sentenza a titolo informativo anziché costitutivo.
Al tempo stesso, non si richiede che la relativa pena sia stata scontata in quanto, ragionando in tal senso, si verrebbe a creare una sorta di disparità di trattamento a favore del soggetto che si sia sottratto volontariamente alla esecuzione della condanna. Agli effetti della recidiva si tiene conto anche delle condanne per le quali sia intervenuta una causa di estinzione della punibilità (amnistia impropria, indulto, prescrizione della pena), che non si estenda agli effetti penali.
Non si tiene conto, invece, delle condanne per le quali sia intervenuta una causa di risoluzione del reato (art. 367 c.p.) o la riabilitazione in quanto, in questi casi, cessano tutti gli effetti penali.
La recidiva consiste in una circostanza aggravante ad effetto speciale (in quanto può determinare un aumento di pena superiore ad un terzo) che comporta un più grave trattamento sanzionatorio per chi sia ricaduto nel delitto nonostante una precedente condanna, in quanto il reo non ha dimostrato alcun pentimento e non ha compreso la funzione rieducativa della pena precedentemente inflittagli. Che si tratti di circostanza aggravante lo si desume dalla efficacia extraedittale che assume al fine della determinazione della pena, fungendo come strumento di commisurazione della pena medesima.
La recidiva, come confermato più volte dalla giurisprudenza di legittimità, non è uno "status" soggettivo desumibile dal certificato penale ovvero dal contenuto dei provvedimenti di condanna emessi nei confronti di una persona, sicché, per produrre effetti penali, deve essere ritenuta dal giudice nel processo di cognizione dopo una sua regolare contestazione in tale sede.
Il giudice è tenuto a verificare in concreto se la reiterazione dell'illecito sia effettivo sintomo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, avuto riguardo alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro, all'eventuale occasionalità della ricaduta e ad ogni altro parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale dell'esistenza di precedenti penali.
Fra le diverse, molteplici, condizioni capaci di favorire la ricaduta nel reato possiamo indicare elementi relativi alla personalità del reo; si tratta di tutto quel complesso di fattori relativi alla psiche del soggetto capaci di rendere il medesimo particolarmente vulnerabile agli stimoli provenienti dall'esterno, soprattutto se antisociali, causati, molto spesso, da episodi di violenza adolescenziale o di scarsa educazione; fattori ambientali; si potrà trattare di tutto ciò che caratterizzi lo spazio nel quale il soggetto svolge la propria vita, come, ad esempio, la famiglia, le condizioni economiche o sociali, i rapporti di amicizia, ecc. Appare del tutto evidente, infatti, come il rientro all'interno di un tale ambiente, dopo l'esperienza, anche positiva, del carcere, possa neutralizzare del tutto i buoni propositi acquisiti in precedenza, facendo riemergere quel sentimento di antisocialità che animava la medesima persona prima che commettesse il reato; effetti negativi del regime di detenzione; basti pensare alle violenze ed ai soprusi, commessi da detenuti a danni di altri, che possono trovare nel carcere un luogo di proliferazione ed impunità. Senza considerare la notevole possibilità di contatti tra delinquenti, capaci di favorire comportamenti aggressivi nei confronti della società, contribuendo alla crescita di una personalità aggressiva facilmente malleabile, da "menti" più forti, verso una ricaduta nel reato; difficoltà nel reinserimento sociale; accade frequentemente che la collettività appaia restia, a priori, nel dare fiducia ad una persona che si sappia essersi posta contro il diritto. Si tratta di ostacoli, spesso insormontabili, che comportano un progressivo isolamento dell'exdetenuto, il quale, abbandonato da tutti e privo di opportunità di reinserimento, si ritroverà costretto a ricorrere al delitto, anche al fine di sopperire a difficoltà economiche, di lavoro o di assistenza.
Possiamo domandarci quale sia il fondamento giuridico dell'istituto, domanda alla quale non è semplice fornire una risposta univoca, soprattutto in considerazione delle diverse concezioni del diritto penale che si sono succedute negli anni. La recidiva, infatti, viene avversata dalle concezioni oggettivistiche del diritto penale, in quanto capace di interrompere il rapporto pena-reato. Posto che il reato rimane il medesimo da chiunque lo commetta, la pena deve essere sempre proporzionata al male cagionato, senza che nessun elemento personalistico possa influire su tale determinazione. Le concezioni soggettivistiche, al contrario, tendono a valorizzare al massimo l'istituto in commento, in quanto, in un diritto penale che esalti il ruolo del volere del soggetto agente, la recidiva esprime una volontà criminale che giustifica un aumento del trattamento sanzionatorio. Non dobbiamo dimenticarci di come il principio della personalità della responsabilità penale (art. 27, 1° co., Cost.) debba essere letto anche nel senso che l'intera personalità del soggetto agente vada necessariamente considerata anche agli effetti di determinare l'aumento della quantità della pena. Secondo l'impostazione che riteniamo di accogliere, la recidiva troverebbe la propria ratio in finalità di soddisfacimento di esigenze di prevenzione speciale. Solo in tal modo si potrebbe giustificare un aumento del trattamento sanzionatorio, in quanto, nella commissione di un nuovo reato da parte di chi si sia già reso responsabile di una condotta contrastante con il diritto, si evidenzierebbe l'insufficienza della precedente sanzione al distoglimento del reo alla realizzazione di nuovi reati.
Che questa fosse la teoria maggiormente accolta nell'impianto originario dell'art. 99 c.p., lo si poteva dedurre da diversi elementi. In primo luogo, la collocazione sistematica dell'istituto, posto al di fuori del titolo dedicato al reato e posto all'interno di quello dedicato al reo. In secondo luogo, la recidiva veniva originariamente concepita come generica, perpetua, obbligatoria ed automatica, segno evidente di una volontà del Legislatore di porre in risalto la ricerca di indici della pericolosità del soggetto. Una diversa teoria, infine, afferma come la recidiva implichi un aumento della colpevolezza. La nostra Costituzione, infatti, avrebbe eletto la colpevolezza come criterio fondamentale del diritto penale, anche in relazione al principio di responsabilità personale del reo (art. 27 Cost.), il quale richiede che la sanzione si adatti il più possibile al soggetto che commette il reato, al fine di incoraggiare il medesimo a tenere una condotta consona ai precetti etici e morali presenti in un determinato contesto storico-sociale, sottesi alle norme giuridiche cristallizzate dal Legislatore. La Legge "ex Cirielli" promulgata nel 2005, ha seguito la linea della precedente riforma in ordine al carattere facoltativo della recidiva, sull'altro versante ha posto delle modifiche, incidendo sulla fisionomia dell'istituto. In primo luogo, ha estromesso i delitti colposi e le contravvenzioni dalla sfera attuativa della recidiva e ha inasprito il trattamento di tale circostanza aggravante; ha imposto il divieto di prevalenza nel caso di recidiva reiterata ed ha, infine, reso la recidiva, sul fronte applicativo, obbligatoria allorché si proceda per i delitti indicati all'art. 407, comma 2, lett. a) del codice di procedura penale. Si parla di recidiva semplice quando il reo è tornato a delinquere commettendo un delitto non colposo di diversa indole rispetto a quello precedente per il quale era stato condannato.
In questo caso è previsto un aumento di pena fino a un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto non colposo.Ci possiamo domandare se la sentenza passata in giudicato attraverso la quale vengano inflitte solo misure di sicurezza sia idonea a costituire recidiva semplice. Parte della dottrina tende a distinguere i casi nei quali il soggetto sia non imputabile per infermità di mente o per la minore età, dai casi di cui all'art. 115 c.p., ai sensi del quale "Salvo che la legge disponga altrimenti, qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato, e questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell'accordo. Nondimeno, nel caso di accordo per commettere un delitto, il giudice può applicare una misura di sicurezza". I medesimi principi si applicano nel caso di istigazione al delitto, qualora l'istigazione non sia accolta ovvero sia accolta ma non seguita dalla commissione del delitto.
Nel primo caso non vi potrebbe mai essere condanna, mentre nell'ipotesi di cui all'art. 115 c.p., la questione si complica se si considera come il Legislatore abbia tenuto in particolare considerazione la pericolosità di un soggetto il quale, sebbene non abbia commesso in concreto alcun delitto, abbia manifestato esteriormente una inclinazione al medesimo (o, se si preferisce, una pericolosità sociale) non indifferente. Se si decide di accogliere l'impostazione secondo la quale il fondamento della recidiva è da individuare – in una chiave prettamente soggettivistica – nella maggiore pericolosità del soggetto che si ponga più volte contro l'ordinamento giuridico, allora non vi saranno particolari problemi nell'ammettere la recidiva anche nel caso di una precedente condanna ad una mera misura di sicurezza.
La recidiva aggravata è disciplinata dall'art. 99, comma 2, c.p., e si configura quando il nuovo delitto non colposo è della stessa indole di quello per il quale è già intervenuta la condanna (si parla di recidiva specifica), oppure è stato commesso nei cinque anni dalla condanna precedente (c.d. recidiva infraquinquennale), o ancora è stato commesso durante o dopo l'esecuzione della pena o durante il tempo in cui il condannato si sia sottratto volontariamente all'esecuzione della pena (c.d. recidiva vera). In caso di recidiva aggravata l'aumento della pena è fino alla metà ma, qualora concorrano più circostanze tra quelle di cui sopra, l'aumento è della metà. Si è affermato che l'aumento di pena per la recidiva qualificata, previsto dalla legge sino alla metà, non possa essere determinato in misura inferiore ad un terzo della pena da irrogare (Cass. pen., Sez. III, 21 gennaio 2011, n. 1861). Il primo problema che deve essere esaminato attiene, quindi, a verificare quando due reati possano definirsi della stessa indole.
Fin dai tempi più remoti la dottrina si è sforzata di individuare un criterio certo ed univoco sulla base del quale poter affermare, con sufficiente precisione, quando possa sussistere tale medesimezza di indole tra le diverse fattispecie criminose. Alcuni di tali criteri possedevano una valenza oggettiva, come, ad esempio, quello che faceva riferimento al bene giuridico offeso dalle due ipotesi criminose, oppure alla natura diritto offeso dalle diverse condotte, sino a giungere alla medesimezza d'indole dei reati. Altri criteri possedevano, al contrario, una valenza prettamente soggettiva, tra i quali possiamo ricordare i motivi delittuosi, ovvero l'ipotesi in cui la ripetizione del reato fosse determinata da un medesimo movente.
Il codice Zanardelli tentò di risolvere la questione adottando un criterio piuttosto complesso, il quale, nel tentativo di fondere tra di loro i diversi criteri ora elencati, indicava i reati della stessa specie all'interno dell'art. 82, individuandoli: a) nei reati identici, ovvero in quelli che violavano la medesima disposizione di legge; b) nei reati omogenei, preveduti da un medesimo Capo del codice; c) nei reati omogenei previsti in diversi Capi del codice, i quali si distinguevano, a loro volta, a seconda dal tipo di impulso che li determinava.
Al pari del codice abrogato, il nostro codice ha inteso accomunare sia il criterio oggettivo che quello soggettivo, ma, diversamente dal primo, ha abbandonato la classificazione in esso presente. In proposito, il Legislatore si è preoccupato di precisare, all'art. 101, come, agli effetti della legge penale, siano considerati reati della stessa indole non soltanto quelli che violano una stessa disposizione di legge, ma anche quelli che, pure essendo preveduti da disposizioni diverse di questo codice ovvero da leggi diverse, nondimeno, per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li determinarono, presentano, nei casi concreti, caratteri fondamentali comuni.
Si ha recidiva aggravata anche nel caso in cui il nuovo reato sia stato commesso durante o dopo l'esecuzione della pena, ovvero durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente alla esecuzione della pena. L'elemento sul quale si regge l'aggravamento di pena è costituito, quindi, dalla esecuzione della pena comminata per il reato precedente. In altre parole, il nuovo reato nasce proprio sulle conseguenze caratterizzanti il precedente giudicato, come se tra la prima condanna e la successiva condotta criminosa esistesse un sottile rapporto di collegamento, indice di una maggiore pericolosità criminale del soggetto agente.
La principale questione che occorre affrontare attiene al significato da attribuire alla nozione di esecuzione della pena, in quanto è dubbio se questa debba essere circoscritta solo alle pene detentive, ovvero anche a quelle pecuniarie, posto che, in astratto, anche queste ultime possono avere una certa durata temporale. Si parla di recidiva reiterata quando un soggetto, che sia già recidivo, commette un ulteriore delitto non colposo. Nel caso in cui quest'ultimo sia di indole diversa dai precedenti la recidiva è detta recidiva reiterata semplice e l'aumento di pena è della metà, mentre se il nuovo delitto rientra nelle fattispecie previste per la recidiva aggravata, si parla di recidiva reiterata aggravata e l'aumento di pena è di due terzi.
Secondo l'orientamento dominante, sostenuto soprattutto in passato, si afferma che per aversi recidiva reiterata sia necessario che il colpevole abbia riportato due o più precedenti condanne irrevocabili per reati, che sia dichiarato recidivo e che sia stato condannato come tale.
Si ricorda che nel caso di continuazione o di concorso formale, il fatto che i reati siano stati commessi da un recidivo reiterato fa sì che l'aumento di pena non possa essere inferiore a un terzo della pena stabilita per il reato più grave. Non manca, però, un contrario orientamento, secondo il quale non vi è compatibilità tra recidiva e continuazione, con la conseguenza che non può tenersi conto della recidiva una volta ritenuta la continuazione tra il reato per cui sia pronunciata sentenza passata in giudicato, valutato come più grave e, pertanto, considerato reato base, e quello successivo, oggetto di ulteriore giudizio, in quanto i reati ritenuti in continuazione costituiscono momenti di un'unica condotta illecita, caratterizzata dalla reiterazione di diversi episodi delittuosi, consumati in attuazione di un medesimo disegno criminoso, con la conseguenza che non è possibile ritenere la recidiva per gli episodi successivi al primo.
In tema di reato continuato, il limite di aumento, ex art. 81 c.p., non inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave, previsto dalla legge nei confronti dei soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva reiterata, non è applicabile quando il giudice non abbia ritenuto la recidiva reiterata concretamente idonea ad aggravare la sanzione per i reati in continuazione o in concorso formale, escludendone così in relazione ad essi l'applicazione. Per quanto riguarda l'applicazione della recidiva facoltativa contestata richiede comunque sempre uno specifico onere motivazionale da parte del giudice, che, tuttavia, può essere adempiuto anche implicitamente, ove si dia conto della ricorrenza dei requisiti di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore.
L'art. 99 c.p. prevede che, nel caso di recidiva aggravata, l'aumento di pena non possa essere inferiore a un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto se si tratta di uno dei delitti di cui all'art. 407, comma 2, lett. a), c.p.
Quindi, quando il nuovo delitto rientra tra quelli che la legge riconosce come particolarmente gravi (ad es. associazione per delinquere di stampo mafioso, estorsione aggravata o sequestro di persona a scopo di estorsione), l'aumento di pena per la recidiva aggravata non può mai essere inferiore ad un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto, così ponendo, il legislatore, un limite minimo al di sotto del quale il giudice non può mai andare.
L'aumento di pena per la recidiva non può mai superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo delitto non colposo.