Di Alessandra Garozzo su Domenica, 22 Settembre 2019
Categoria: Giurisprudenza Cassazione Penale

L’ appellativo animale costituisce diffamazione

Il "diritto" di critica imperversa spesso nei social media ed in generale nei nuovi mezzi di comunicazione; in qualità di viatico di petizioni, ammonimenti e manifestazioni di pensiero l'individuo trova in essi la propria espressione perdendo la lucidità ed il controllo delle basilari forme di comunicazioni. Si parla sempre di più, o invero si scrive sempre di più, e sempre peggio; la comunicazione diviene uno sfogo, un'evasione e non già un mezzo per trasferire informazioni o per ricercare un confronto. L'interlocutore diventa asettico e solo un centro nevralgico presso cui spettacolarizzare i propri istinti. In questo contesto la Suprema Corte con la sentenza n. 34145/2019 recupera la valenza diffamatoria del sostantivo "animale" utilizzato da un condomino, nell'ambito del gruppo WhatsApp, per descrivere il bambino che aveva ferito la figlia. Nel caso di specie il padre della bambina ferita aveva riportato su WhatsApp le seguenti parole: "Volevo solo far notare al proprietario dell'animale ciò che è stato procurato al volto di mia figlia. Domani al rientro dal turno lavorativo prenderò le dovute precauzioni".  

Il giudice di pace adito invero aveva ritenuto non sussistente il fatto diffamatorio e, pertanto, aveva proceduto nel senso dell'assoluzione dell'imputato in quanto non v'era stata alcuna lesione della reputazione del minore danneggiante.

Su tale decisione il pubblico Ministero presentava direttamente ricorso per Cassazione nell'intento di recuperare la giusta prospettazione del linguaggio utilizzato e ribadire l'oggetto giuridico posto a fondamento della fattispecie criminosa. Agli occhi di un lettore mediamente avveduto, difatti, non può sfuggire il fatto che la lesione della reputazione (intesa come corredo di qualità di un individuo valutabili dal gruppo dei consociati) si manifesti non solo nel caso di utilizzo di appellativi palesemente dispregiativi quali le parolacce. Carattere denigratorio difatti hanno pure quelle locuzioni o quei giri di parole che finiscono inevitabilmente per operare una sorta di collazione tra il soggetto, la cui reputazione viene lesa, e il termine di paragone qualora quest'ultimo presenti delle caratteristiche che nel sapere comune abbassano le qualità dell'offeso. Senza dubbio il paragonare tra un bambino ed un "animale" - per quanto l'animale tout court ontologicamente è scevro da considerazioni di carattere negativo- rappresenta un modo per "menomare" le caratteristiche di un minore prima di tutto in relazione alle facoltà intellettive. 

La Corte di Cassazione censura la quasi apodittica posizione del giudice di pace nel momento in cui lo stesso, pur riconoscendo la carica dell'appellativo "animale", finisce per disconoscerne l'effetto lesivo alla reputazione altrui. La Corte difatti evidenzia che le aperture giurisprudenziali in merito ad alcune espressioni non smussano il carattere offensivo intrinseco di altre. Per altro l'espressione verbale utilizzata dall'imputato correda l'offesa col sintagma "proprietario dell'animale": ciò equivale infatti non solo a degradare il minore ad un animale ma anche a ridurlo a "cosa" nella misura in cui si dice che altri ne abbia la proprietà. Sebbene dunque l'appellativo "animale" si riscontra sempre meno nella prassi comunicativa, non può non evincersi un intento denigratorio ed una vera e propria lesione del decoro altrui.

I Supremi Giudici alla luce delle suddette considerazioni annullano dunque la sentenza rinviando al giudice di pace per un nuovo esame; dispongono che la parte civile non può ottenere la refusione delle spese processuali in sede di legittimità ma può far valere le proprie ragioni sul punto nel nuovo processo.