Di Paola Mastrantonio su Sabato, 25 Giugno 2022
Categoria: Avvocatura, Ordini e Professioni

Il praticante che si spaccia per avvocato non sempre risarcisce il cliente.

Il contratto stipulato con un praticante che, abusivamente, spende il titolo di avvocato
specializzato, deve reputarsi nullo, ma non costituisce ex sé titolo per il risarcimento del danno per violazione della buona fede contrattuale, salvo che la parte fornisca la prova sia dell'esistenza di un pregiudizio, sia della riconducibilità dell'evento dannoso all'esercizio parzialmente invalido della prestazione professionale.

Lo ha stabilito la Cassazione con l'ordinanza 20108/2022 nell'ambito di un procedimento instaurato da una praticante per il pagamento del compenso professionale per l'attività difensiva svolta in due distinti procedimenti, di cui uno innanzi al tribunale del riesame e, pertanto, secondo quanto previsto antecedentemente alla riforma intervenuta nel 2012, esorbitante i limiti del patrocinio previsto per i praticanti abilitati.

Il fatto.

Il cliente di un falso avvocato aveva agito per far valere la nullità ontologica da cui risultava affetto il contratto stipulato con un praticante avvocato abilitato, che però abusivamente aveva speso il titolo di avvocato specializzato, ed ottenere da costui il risarcimento del danno per mala fede contrattuale.

La decisione.

La Corte, in relazione allo jus postulandi, ha osservato che la praticante, pur non essendo, all'epoca dei fatti, abilitata a svolgere l'attività professionale relativamente alle fase di impugnazione instaurata dinanzi al Tribunale del riesame (quale organo giurisdizionale collegiale), lo era, invece, relativamente alla fase precedente, potendo, ai sensi dell'art. 7 della legge n. 479/1999, assumere l'incarico riguardante i procedimenti relativi ai "reati per i quali la legge stabilisce una pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni ovvero una pena pecuniaria sola o congiunta alla predetta pena detentiva"
(nel caso di specie, il reato contestato alla parte assistita - quello di cui all'art. 494 c.p. - prevedeva la pena detentiva pari nel massimo ad un anno). In tale secondo procedimento, dunque, la praticante aveva legittimamente ricevuto il conferimento dell'incarico con il rilascio dell'apposita procura speciale da parte dell'assistito,poiché nei confronti di quest'ultimo si procedeva in sede penale in relazione al reato di cui all'art. 494 c.p..

Quanto alle condizioni per il riconoscimento del preteso risarcimento del danno, secondo la Corte, il ricorrente avrebbe dovuto dimostrare come, per effetto della prestazione professionale resa dalla praticante oltre i limiti dello jus postulandi, egli avesse risentito di un pregiudizio in concreto, posto che la difesa espletata dinanzi al Tribunale del riesame aveva consentito allo stesso ricorrente, in accoglimento dell'impugnazione, la restituzione dell'abbonamento e della tessera sanitaria sequestrata (attraverso il cui utilizzo era stato consumato - secondo l'imputazione contestata - il reato di sostituzione di persona). Inoltre, era mancata del tutto la prova di una riconducibilità dell'evento dannoso all'esercizio parzialmente invalido della prestazione professionale da parte della praticante, che, peraltro, aveva condotto ad un esito positivo.

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