Inquadramento normativo: Art. 1439 c.c.
Il dolo e l'annullamento del contratto: Il dolo è causa di annullamento del contratto quando i raggiri usati da uno dei contraenti sono stati tali che, senza di essi, l'altra parte non avrebbe contrattato. Quando i raggiri sono stati usati da un terzo, il contratto è annullabile se essi erano noti al contraente che ne ha tratto vantaggio (art. 1439 c.c.). In buona sostanza affinché il contratto così concluso sia annullato:
- non è sufficiente una qualunque influenza psicologica sull'altro contraente, ma sono necessari artifici o raggiri, o anche semplici menzogne che abbiano avuto comunque un'efficienza causale sulla determinazione volitiva della controparte e, quindi, sul consenso di quest'ultima (Cass. nn.11009/2018, 12892/2015, richiamate da Cass., n. 25968/2021);
- il dolo omissivo che vizia la volontà deve rilevare solo quando l'inerzia della parte contraente rientri in un complesso comportamento preordinato, con malizia o astuzia, a realizzare l'inganno perseguito. Il semplice silenzio, anche su situazioni di interesse della controparte, e la reticenza, non immutando la rappresentazione della realtà, ma limitandosi a non contrastare la percezione di essa alla quale sia pervenuto l'altro contraente, non costituiscono causa invalidante del contratto.
Piuttosto, la reticenza e il silenzio non sono sufficienti a costituire il dolo, se non in rapporto alle circostanze e al complesso del contegno che determina l'errore del "deceptus", che devono essere tali da configurarsi quali malizia o astuzia volte a realizzare l'inganno perseguito (Cass. nn. 2104/2003; 11009/2018, richiamate da Cass., n. 18496/2021).
Il dolo come causa di annullamento e il danno: Il caso in cui i raggiri usati siano tali che senza di essi l'altra parte non avrebbe contrattato comporta – come su accennato – l'annullamento del contratto. E ciò in considerazione del fatto che in questa ipotesi si ha un vizio del volere che ha inficiato la manifestazione del consenso. L'annullamento del contratto, tuttavia, prescinde dalla esistenza, oppur no, di un danno al patrimonio del contraente: a differenza di altre fattispecie (cfr. art. 2373 c.c.), l'induzione in errore o l'esercizio della violenza o la falsa rappresentazione della realtà, nota all'altro contraente, producono il vizio di annullamento del contratto, indipendentemente dal danno o dal pericolo di danno, che non costituiscono elementi costitutivi della fattispecie di tale invalidità negoziale. Ciò, in ossequio alla nostra tradizione giuridica millenaria, che dal diritto romano trasmigra nelle moderne costituzioni, secondo cui la buona fede deve necessariamente improntare ogni momento del rapporto tra i contraenti, pena il disvalore ricollegato dall'ordinamento a condotte che da essa si discostino (Cass., n. 18183/2019).
L'accoglimento della domanda di annullamento: L'effetto invalidante dell'errore frutto di dolo è subordinato alla circostanza (della cui prova è onerata la parte che deduce il vizio di consenso) che la volontà negoziale sia stata manifestata in presenza - o in costanza - di questa falsa rappresentazione, spontanea o provocata (Cass., n. 3065/1988, richiamata da Cass, n. 5734/2019 ).
Ne consegue che la domanda di annullamento non potrà essere accolta se:
- esistono clausole negoziali dal contenuto concreto e inequivoco (Cass., n. 3065/1988, richiamata da Cass, n. 5734/2019 );
- sussiste qualsiasi altra circostanza che escluda che l'attore versasse in errore al momento della prestazione del consenso (Cass., n. 3065/1988, richiamata da Cass, n. 5734/2019).
Il dolo che vizia la volontà e causa l'annullamento del contratto implica ex necesse la conoscenza da parte dell'agente delle false rappresentazioni che si producono nella vittima e il convincimento che sia possibile determinare con artifici, menzogne e raggiri la volontà altrui, inducendola specificamente in inganno (Cass., n. 2104/2003, richiamata da Cass, n. 5734/2019); e l'accertamento se la fattispecie concreta, sulla base delle risultanze probatorie emergenti, dia luogo ad una ipotesi di dolo determinante (art. 1439 c.c.), costituisce esso stesso valutazione di merito, non sindacabile in sede di legittimità se non nei limiti dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Cass., n. 2479/2007, richiamata da Cass, n. 5734/2019).