Prima di affrontare l'argomento della "Marcia su Roma" corre l'obbligo di una premessa.
Premessa necessaria affinché sia chiaro che questo intervento non nasce dalla volontà di intentare processi o percorrere vie di facile strumentalizzazione politica o demagogica, ma vuole semplicemente offrire qualche elemento ad una riflessione. È il minimo che si possa fare in un'occasione, come questo Anniversario del Centenario che ha visto coinvolta il nostro Paese, la nostra Comunità civile in un periodo, ora, per alcuni diventato anche controverso, della nostra storia nazionale.
Una premessa, soprattutto, oggi, cento anno dopo questo avvenimento nazionale, che vede presiedere il governo nazionale da Giorgia Meloni, prima donna nella nostra storia, le cui origini politiche, sotto molti aspetti, si rifanno a quella ideologia, al netto delle dichiarazioni di rito che abbiamo sentito nelle scorse settimane.
Il 28 ottobre 1922, Cento anni fa, in Italia assistiamo ad una violenta "Marcia su Roma" con decine di migliaia di "Camice nere" che, da ogni parte d'Italia, ma dal Nord, soprattutto, si riversarono sulla "Città Capitolina", e, con la complicità del re Vittorio Emanuele III° si impossesseranno del potere che manterranno fino al 25 aprile del 1943.
Le "Camice nere" erano nate, nel 1920 con l'aiuto dei proprietari terrieri, nel Nord Italia, soprattutto, che in queste organizzazioni para militari riconoscevano la possibilità di potere contrastare le "leghe socialiste" nelle elezioni amministrative.
Lo squadrismo si organizzò tra il 1921 e il 1922 mettendo a ferro e fuoco sia le Case del popolo sia le sedi dei partiti. E, dopo la presa del potere di Benito Mussolini, a questa organizzazione sarà affidato tutto il lavoro sporco nei vent'anni della dittatura.
Gli omicidi di politici scomodi, di intellettuali, di sacerdoti e di chiunque veniva catalogato come nemico del fascismo, erano all'ordine del giorno. Nell'estate del 1921, Antonio Gramsci annotava quell'anno "barbarico" per ricordare quegli italiani che erano stati massacrati "… dal piombo, dal pugnale, dalla mazza ferrata del fascista. […] per non parlare della chiusura della stampa libera, di consiglieri delle istituzioni costretti a dimettersi sotto le minacce di queste bande armate, con atti intimidatori o con pestaggi a volte anche mortali.
Ci siamo chiesti, in primo luogo: il fascismo in Italia, dal 1922 al 1943 si realizzò in forme uguali su tutto il territorio nazionale?
Non è una domanda retorica, se vogliamo comprendere il clima in cui maturarono quei delitti e tutto quello che avvenne dopo.
Il problema l'ha affrontato nel 1947 Arturo Carlo Jemolo, chiarissimo insegnante di diritto ecclesiastico, cattolico fervente, combattente partigiano, scrittore e collaboratore della "Stampa" di Torino fino agli ultimi mesi della sua vita.
Scrive Jemolo: "Come si poteva dimenticare che il fascismo era stata cosa diversissima nelle varie regioni e diversa nei vari periodi; che nell'Emilia ed in Toscana aveva subito mostrato il suo volto sanguinario, ma nel Mezzogiorno lo si era potuto in buona fede ritenere un moto di risanamento, di emancipazione dai signorotti locali, e qualcosa di buono aveva fatto, un certo acceleramento nella mescolanza delle classi lo aveva portato, aveva un po' tratto le donne fuori dalla casa per una qualche partecipazione alla vita pubblica; che nel 1923 e nel 1924 v'erano stati uomini in buona fede, poi coraggiosamente ricredutisi a viso aperto, che vi avevano aderito; come si poteva dare un profilo di sanzione morale a quella che colpiva i fascisti di regioni che non avevano mai conosciuto una spedizione punitiva, e tali in anni già remoti, quando non erano ancora in vista razzismo né guerre di avventura?" (1).
E nasce la "favola" che al tempo del fascismo tutti gli italiani erano fascisti.
Jemolo spiega benissimo che non era proprio così. Ma che c'erano Regioni, la Sicilia per esempio, che rimase tagliata fuori sia dai pestaggi fascisti sia dai sconvolgenti rumori della Seconda guerra mondiale.
Ma come fu possibile che il 28 ottobre 1922 le Camice nere" aprissero la via a Mussolini pei impadronirsi del potere.
Le cause sono individuabili in alcune leggerezze.
La prima del presidente del consiglio Luigi Facta, insediatosi nel mese di febbraio di quell'anno. Un governo che lasciò mano libera alle "Camice nere" che seminavano il terrore nelle città del Nord e nelle campagne.
La seconda del re d'Italia Vittorio Emanuele III che quel giorno non schierò l'esercito contro gli occupanti.
Per il resto ci pensò Benito Mussolini ad esercitare per 20 anni, grazie alla dittatura instaurata, e i pieni poteri.
(1) Arturo Carlo Jemolo, La battaglia che non fu data, Il Ponte, rivista mensile di politica e letteratura, Anno III, no.11-12, Novembre-dicembre 1947;