"Per lo Stato, la vita di Marianna Manduca non poteva essere salvata, nonostante le 12 denunce fatte dalla donna contro il marito. La spiegazione di questa sentenza è puramente corporativa. I magistrati non si discutono e non sbagliano mai". Non ha peli sulla lingua l'avvocato Licia D'Amico che ha annunciato in nome e per conto del suo assistito, ricorso in Cassazione contro la sentenza della Corte d'Appello di Messina che ha sottratto agli orfani della donna assassinata il risarcimento, di circa 260mila euro, riconosciuto in primo grado con condanna della Presidenza del Consiglio dei ministri, a fronte del riconosciute responsabilità della procura della Repubblica di Caltagirone, che per anni non diede alcun rilievo a ben 12 denunce della donna poi assassinata.
Ma ricostruiamo la vicenda partendo dagli ultimi giorni di vita di Marianna.
"L'atteggiamento violento del mio ex non si ferma davanti a niente. Ha minacciato di farmela pagare. Non mi rimane altro che continuare a denunciare nella speranza che qualcuno mi ascolti".
Parole pronunciate da Marianna Manduca, la donna assassinata dal marito Saverio Nolfo a Palagonia, in Sicilia. Una storia incredibile, come incredibile fu l'atteggiamento della Procura di Caltagirone, che non adottò alcun provvedimento di rilievo di fronte a ben 12 denunce della donna, così di fatto concorrendo a condannarla a morte.
Una morte, invece, che avrebbe potuto essere evitata, solo che si fosse dato rilievo alle reiterate denunce della donna. Come quella presentata il 30 maggio 2007, nella quale lei ricostruiva minuziosamente l'atteggiamento inequivocabile tenuto dal Nolfo di fronte, peraltro, ai suoi bambini: "Questi estraeva dalla sua tasca un coltello a scatto e davanti ai bambini, con aria di sfida nei miei confronti, lo utilizzava platealmente per pulirsi unghie e mani. Mentre maneggiava una sorta di arco artigianale, alla mia vista puntava l'arco caricato con una sorta di freccia metallica ricavata da una parte di antenna acuminata. Sono stata nuovamente minacciata da Nolfo il quale maneggiando quell'arco scoccava al mio indirizzo la freccia precedentemente notata. Fortunatamente la freccia non mi ha colpito, cadendo a circa 50 metri dalla mia sagoma. Successivamente questi si faceva trovare maneggiando il medesimo coltello con il quale si avvicinava a me, detto coltello aveva la lama a punta di 10 centimetri". Ed ancora, giorni dopo: "In numerose occasioni il mio ex mi ha minacciato di farmela pagare definitivamente. Ho già presentato numerose denunce e querele ma nulla è cambiato. Il suo atteggiamento violento e prevaricatore non si ferma davanti a niente. Non so più cosa fare, temo per la mia incolumità. Non mi rimane altro che continuare a denunciare nella speranza che qualcuno mi ascolti".
Nessuno, invece, l'ascoltò, e l'epilogo fu atroce, Marianna fu assassinata dal Nolfo, che, al termine del processo a suo carico venne condannato a 20 anni di reclusione. Ma i giudici si occupano anche delle responsabilità dei pubblici ministeri, in specie della procura di Caltagirone, il cui capo, all'epoca dei fatti, era Onofrio Lo Re. Con una sentenza esemplare, i giudici riconoscono anche il danno patrimoniale condannando la presidenza del Consiglio dei ministri al risarcimento, in favore degli orfani, di 260mila euro, proprio sul presupposto della inerzia dei magistrati.
Ma non finisce qui, perché, con un colpo di teatro che potrebbe essere definito pirandelliano, la Presidenza del Consiglio dei Ministri si oppone alla sentenza e, tramite l'avvocatura dello Stato, suo difensore ex lege, la impugna: "ha richiesto la restituzione dei soldi- parole dell'avvocato Licia D'amico, difensore di Carmelo Calì, cugino di Marianna, che, dopo il suo omicidio, aveva manifestato l'intenzione di occuparsi dei suoi tre bambini, arrivando ad ottenere l'adozione insieme alla moglie - sul presupposto che non ci fosse nessuna avvisaglia, nessun elemento d'allarme, che l'uomo potesse uccidere l'ex moglie, nonostante le denunce della vittima".
E siamo alle ultime battute, con l'accoglimento, da parte della Corte d'Appello di Messina, delle tesi dell'ufficio appellante, e con la sottrazione, di conseguenza, agli orfani di marianna, del risarcimento ottenuto in primo grado. Lo Stato, insomma, non paga!
Una sentenza fortemente contestata, oltre che dall'opinione pubblica, anche dal Calì, e in una intervista concessa a Chiara Buccione di Dire.it, l'avvocato Licia D'Amico è un fiume in piena: "Con la sentenza del 4 marzo 2019, facciamo marcia indietro di almeno 50 anni rispetto alla pronuncia precedente. Per lo Stato, la vita di Marianna Manduca non poteva essere salvata, nonostante le 12 denunce fatte dalla donna contro il marito. La spiegazione di questa sentenza è puramente corporativa. I magistrati non si discutono e non sbagliano mai".
"Ora alle donne bisognerà dire che in caso di minacce di morte da mariti, fidanzati, etc, bisognerà comprare direttamente un loculo al cimitero, perché altro non si può fare". Nella sentenza si è raggiunta "una gravità oltre ogni limite", continua D'Amico. Per la Corte 'non è sostenibile che un eventuale interrogatorio avrebbe comportato la cessazione delle minacce', "mentre forse una convocazione in caserma avrebbe potuto far ragionare un uomo del genere, avvisandolo e rendendolo consapevole che stava superando il limite. Ma queste sono solo ipotesi, perché i fatti sono altri: una donna pugnalata e 12 denunce impressionanti di richieste d'aiuto alle Istituzioni dello Stato, alla Procura della Repubblica che invece non l'hanno ascoltata in nessun modo".
Insomma, la sentenza "è uno schiaffo agli orfani di Marianna Manduca- continua l'avvocato D'Amico- perché sono state chieste indietro anche le somme versate come risarcimento dalla Presidenza del Consiglio in esecuzione della sentenza di primo grado". "In un momento storico che fa venire i brividi da tanti punti di vista, in cui i femminicidi sono all'ordine del giorno, una sentenza come questa lancia un messaggio ben preciso da parte delle Istituzioni: non è un problema nostro. Il segnale per le donne vittima di violenza è terrificante, un passo indietro rispetto a tutte le campagne di sensibilizzazione di questi anni- spiega ancora la legale alla Dire. "Nonostante la profonda delusione comunque noi andiamo avanti. La settimana prossima depositeremo il ricorso per Cassazione e promuoveremo delle iniziative di sensibilizzazione sul caso. Non possiamo accettare- ha concluso- una sentenza di retromarcia così grave e pesante".