Con la sentenza n. 28721/2018 la Corte di Cassazione ha riaffermato il principio per cui non sono sequestrabili gli atti e i documenti inerenti l'attività difensiva di un legale di una società fallita, qualora non rappresentino corpo del reato, neppure se il legale è indagato in concorso nel delitto di bancarotta fraudolenta.
Con l'occasione, la Corte ha ricostruito i limiti alle ispezioni, alle perquisizioni e ai sequestri rispetto alle garanzie del difensore.
Fatto
Nel caso sottopostole, la Cassazione si era trovata a decidere su un provvedimento del Tribunale del Riesame di Trento il quale aveva rigettato il ricorso di un legale avverso il decreto di perquisizione locale e informatica nonché di sequestro di alcuni suoi fascicoli di studio, agende in cui aveva annotato gli impegni professionali e notebook.
In particolare, l'avvocato ricorrente aveva allegato di essere stato nominato legale della società fallita e di essere stato incaricato dell'impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento della stessa, nonché di alcune operazioni di recupero crediti.
In quanto difensore di fiducia della società fallita, lamentava quindi l'illegittimità del sequestro disposto nei suoi confronti di atti e documenti inerenti la propria attività professionale, non configurabili - neppure astrattamente - come corpi del reato.
Rilevava, peraltro, come, a differenza di quanto affermato dal Tribunale, non gli fossero stati restituiti tutti gli atti posti sotto sequestro, rinvenuti nel corso della perquisizione.
Con un ultimo motivo lamentava, infine, che il G.I.P. che aveva autorizzato il sequestro e il Tribunale che aveva deciso sulla richiesta di riesame avessero omesso di motivare con riguardo alla rilevanza probatoria della documentazione sequestrata.
Motivazioni
La Corte, prendendo in esame tutti e tre i motivi di doglianza, ha accolto il ricorso, annullando il provvedimento impugnato, e ha rinviato gli atti all'esame dei giudici di rinvio, affinché motivassero proprio in merito ai presupposti legittimanti l'adozione di una misura di sequestro rispetto ad atti concernenti attività difensiva.
L'art. 103 c.p.p. detta i limiti ai poteri di indagine del pubblico ministero con riferimento alla figura del difensore e ai luoghi in cui svolge la propria attività professionale, quale strumento indiretto teso a garantire l'inviolabilità del diritto di difesa, ex art. 24 Cost.
Tale disposizione elenca in maniera tassativa le ipotesi in cui può essere eseguita una perquisizione o un'ispezione presso lo studio professionale di un difensore.
I casi sono quelli in cui il difensore sia accusato di un aver commesso un reato o per rilevare tracce o altri effetti materiali del reato o per ricercare cose o persone specificamente predeterminate, che gli inquirenti sanno o presumono trovarsi in tali luoghi.
Nell'accingersi a svolgere una perquisizione, peraltro, a pena di nullità, il Consiglio dell'Ordine deve essere preventivamente informato perché il Presidente o un consigliere da questo delegato possano assistere alle operazioni.
Infine, con particolare riferimento al sequestro, quest'ultimo è vietato in via generale, così come ogni forma di controllo della corrispondenza tra l'imputato e il proprio difensore, salvo che l'autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato.
Ai sensi dell'art. 253 co. 2 c.p.p., il corpo del reato è definito come le cose sulle quali o mediante le quali il reato è commesso, nonché le cose che costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo del reato.
La violazione di tali divieti comporta l'inutilizzabilità di tutte le fonti di prova acquisite tramite mezzi di prova illegittimi poiché adottati in violazione di norme procedurali e sostanziali.
Infine, la Corte ricorda come, per acquisizione giurisprudenziale, le suddette limitazioni non sono volte a tutelare chiunque eserciti la professione legale, ma solo chi rivesta la qualità di difensore in forza di uno specifico mandato, conferitogli nelle forme di legge, poiché sono apprestate in funzione di garanzia del diritto di difesa dell'imputato.
Nel caso di specie, quindi, correttamente, erano state applicate le garanzie dell'art. 103 c.p.p.
Tuttavia, il Tribunale del Riesame aveva poi omesso di considerare proprio il co. 2 dell'art. 103 c.p.p. che non consente il sequestro di carte o documenti relativi all'oggetto della difesa, salvo che si tratti di corpo del reato, non motivando alcunché sul punto.
Di talché il sequestro - allo stato degli atti - non risultava legittimo.
La Corte, quindi, ritrasmetteva il fascicolo al Tribunale per un nuovo esame dei fatti.