Con ordinanza dell'11 gennaio 2024, n. 1124, la sezione lavoro della Corte di Cassazione ha confermato la legittimità di una sentenza che aveva riconosciuto il diritto al risarcimento del danno di una lavoratrice costretta a dimagrire per entrare in una divisa di una taglia più piccola della sua.
Nel provvedimento, oltre alla conferma dell'esistenza di una fattispecie di mobbing, sono stati enunciati altresì due importanti principi, l'uno riguardo all'elemento soggettivo, l'altro in tema di prove.
Quanto al primo aspetto, i decidenti hanno affermato che, ai fini della configurabilità del mobbing, non è indispensabile il dolo specifico, ma è sufficiente la sola colpa; questo perché, hanno ricordato gli Ermellini, la norma di riferimento nell'ambito della responsabilità civile da mobbing è l'art. 2087 del codice civile, la cui violazione da origine ad una responsabilità contrattuale.
Relativamente alla prova del mobbing, la Cassazione ha ritenuto legittima l'ammissione da parte del giudice del merito di una testimone, pur inizialmente esclusa perché non indicata nella lista testimoniale della lavoratrice - ma poi rivelatasi determinante ai fini del convincimento giudiziale - in quanto utile a chiarire la situazione già descritta dalle altre testimoni e quindi necessaria per la ricerca della verità materiale.
Secondo la Cassazione, dunque, l'esercizio del potere ufficioso da parte del giudice del merito è sempre giustificato qualora sia finalizzato alla ricerca della verità materiale, in particolare per le fattispecie di mobbing.
Il caso.
La dipendente di un'agenzia di lavoro interinale, agiva in giudizio per ottenere il pagamento delle ore di lavoro straordinario non retribuito e per il risarcimento del danno per aver subito condotte vessatorie da una superiore gerarchica.
Il ricorso veniva accolto sia in primo che in secondo grado e la società convenuta veniva condannata asia al pagamento degli straordinari che al risarcimento del danno da mobbing.
La Corte territoriale, in particolare, sottolineava la gravità della vicenda vessatoria di cui era stata vittima la lavoratrice, la quale era stata inserita nell'ufficio amministrativo, come impiegata, e aveva iniziato a lavorare sotto il potere direttivo di altra dipendente.
Nel corso del rapporto di lavoro, la lavoratrice fu vittima di condotte vessatorie e lesive della propria dignità personale e professionale, che inizialmente erano consistite in invadenze inaccettabili da parte della superiore gerarchica nella propria sfera intima e personale, poi proseguite in maniera sempre più pressante, fino a culminare in vere e proprie vessazioni con offese, denigrazioni e molestie.
Veniva inoltre accertato che la superiore aveva consegnato alla lavoratrice un clistere con prescrizione di utilizzarlo e insieme veniva imposta una dieta ipoglicemica, affinché la stessa potesse dimagrire e indossare così una divisa di una taglia più piccola.
La lavoratrice era stata inoltre più volte denigrata in pubblico e rimproverata in malo modo con forti urla e offese.
Secondo la Corte d'Appello, simili accadimenti, risultati ampiamente dimostrati nel corso dell'istruttoria, se non avevano integrato il mobbing, certamente avevano leso la dignità della dipendente e suoi fondamentali diritti come quello alla riservatezza e alla privacy, quest'ultima intesa come tutela della propria sfera personale e intima, tutti in violazione dell'art. 2087 del codice civile.
Peraltro, dalla relazione sanitaria si evinceva un vero e proprio danno biologico a danno della dipendente, consistente in un grave stato depressivo.
Veniva altresì riconosciuto un danno morale, rappresentato dalla sofferenza interiore.
Avverso tale sentenza la società proponeva ricorso in Cassazione.
La decisione della Cassazione.
Quanto alla configurabilità della fattispecie, per la Corte di cassazione, i giudici d'appello hanno lungamente e correttamente motivato in fatto circa la palese violazione dell'obbligo di sicurezza ed hanno citato più volte l'art. 2087 del codice civile come norma applicata a condotte (ritenute se non di mobbing, quantomeno di straining) della datrice di lavoro.
Quanto alle doglianze mosse nei confronti dell'ammissione di una teste non indicata nella lista testimoniale, i giudicanti hanno ritenuto che, nel caso di specie, il potere ufficioso fosse stato espressamente giustificato dalla Corte territoriale con richiamo all'art. 421 c.p.c., norma che regola i poteri istruttori anche ufficiosi propri del rito del lavoro e della quale i giudici d'appello avevano evidenziato la specifica ratio ed i suoi limiti, motivatamente ritenuti rispettati.
Nell'ordinanza è stato poi ricordato che l'integrazione ex officio delle prove testimoniali, ai sensi dell'art. 257, comma 1, c.p.c., è espressione di una facoltà discrezionale, esercitabile dal giudice quando ritenga che, dalla escussione di altre persone, non indicate dalle parti, ma presumibilmente a conoscenza dei fatti, possano trarsi elementi utili alla formazione del proprio convincimento; l'esercizio, o il mancato esercizio, di tale facoltà presuppone un apprezzamento di merito delle risultanze istruttorie, come tale incensurabile in sede di legittimità, anche sotto il profilo del vizio di motivazione.
La Corte ha dunque rigettato il ricorso e condannato la ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che ha liquidato in Euro 5.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario delle spese generali e accessori di legge.