Di Paola Mastrantonio su Martedì, 25 Ottobre 2022
Categoria: Giurisprudenza Cassazione Lavoro

E’ ingiustificata l’assenza per malattia del lavoratore che presenti un certificato estero senza apostille.

Premessa

Quando si ha la necessità di presentare un documento in un Paese diverso da quello in cui è stato redatto, è necessaro effettuare un controllo della sua autenticità. 

A tale scopo intervengono gli istituti della legalizzazione e dell'apostille.

 La legalizzazione consiste nell'attestazione ufficiale della legale qualità di chi ha apposto la propria firma sopra atti, certificati, copie ed estratti, nonché dell'autenticità della firma stessa ai sensi del D.P.R. 445/2000. 

L'Apostille, invece, è un timbro che viene apposto dal governo di un Paese firmatario della Convenzione dell'Aja del 1961, che riconosce la qualità con cui opera il funzionario pubblico che ha sottoscritto il documento, la veridicità della firma e l'identità del timbro o del sigillo del quale il documento è rivestito. L'annotazione va fatta sull'originale del certificato rilasciato dalle autorità competenti del Paese interessato, da parte di un'autorità identificata dalla legge di ratifica del Trattato stesso.

La differenza tra legalizzazione e apostille risiede sostanzialmente nel fatto che per la prima è necessario anche il passaggio del documento presso l'autorità consolare estera in Italia, mentre l'apostille salta questa fase ed il documento è utilizzabile direttamente in tutti gli Stati aderenti alla Convenzione dell'Aja del 5 ottobre 1961.

Gli istituti dell'apostille e della legalizzazione entrano in gioco anche in caso di malattia del lavoratore italiano durante un soggiorno all'estero.

Secondo le linee guida dell'INPS, infatti, il lavoratore avente diritto alla tutela previdenziale della malattia, ammalatosi durante un soggiorno all'estero, conserva il diritto all'indennità economica secondo la normativa italiana, ciò nonostante sarà sempre necessario esibire una certificazione medica completa di tutti i dati essenziali, rilasciata nel rispetto delle norme del Paese in cui è avvenuto il soggiorno.

I dati essenziali del certificato e le modalità di trasmissione, dipendono, però, dalla circostanza che il lavoratore, al momento in cui contrae la malattia, si trovi in un paese firmatario della Convenzione dell'Aia oppure no: nel primo caso, infatti, occorrerà apporre al certificato medico l'apostille, nel secondo caso occorrerà ricorrere alla legalizzazione e, pertanto, il certificato dovrà essere inviato anche all'autorità consolare estera in Italia.

Nel caso deciso con la sentenza n. 24697/2022, la Cassazione ha affrontato la problematica relativa all'incidenza della mancanza dell'apostille sulla legittimità del licenziamento disciplinare, nei confronti di un lavoratore ammalatosi mentre era in Marocco. 

La massima

L'istituto dell'apostille, introdotto dalla convenzione dell'Aja del 1961, incide sull'autenticità formale e sostanziale di un documento da utilizzare con valore giuridico in un paese straniero. In assenza di tale forma legale di autenticità del documento, il giudice italiano non può attribuire efficacia validante a mere certificazioni provenienti da un pubblico ufficiale di uno stato estero, pur se aderente alla Convenzione.

Deve pertanto reputarsi legittimo il licenziamento per assenza ingiustificata del lavoratore, ammalatosi durante un soggiorno all'estero, nel caso in cui costui, a giustificazione della propria assenza, presenti un certificato medico estero privo dell'apostille.

Cass., sez. lav., sent. n. 24697/2022

Il fatto.

La dipendente di una cooperativa di servizi veniva licenziata senza preavviso per assenza ingiustificata dal posto di lavoro.

La stessa, durante il periodo d'assenza per malattia, si trovava in Marocco e, a giustificazione della propria assenza, aveva inviato al datore di lavoro due certificati medici tradotti in italiano, ma entrambi privi della postilla.

Il licenziamento, era stato ritenuto legittimo dal giudice del primo grado, ma la Corte territoriale aveva riformato la sentenza di primo grado reputando illegittimo il licenziamento e ordinato alla datrice di lavoro di  reintegrare la dipendente nel posto di lavoro  ed a corrisponderle, a titolo di risarcimento del danno, un'indennità pari a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto.

Secondo la Corte d'appello, nel caso sottoposto al suo scrutinio, si verteva in un'ipotesi di assenza dal lavoro non del tutto priva di giustificazione ed inficiata solo da irregolarità formale: la giusta causa di licenziamento andava ravvisata solo nell'ipotesi di assenza priva di giustificazione sostanziale, mentre nel caso sottoposto alla sua valutazione, tale circostanza non era ravvisabile; la mancanza della postille, ritenuta necessaria per le certificazioni mediche inviate all'INPS per la corresponsione delle indennità di malattia, non poteva infatti ritenersi un vizio sostanziale del certificato medico tale da rendere ingiustificata l'assenza della lavoratrice.

Peraltro, la mancata legalizzazione dei certificati medici non poteva essere imputata a negligenza della lavoratrice, non solo perché la Convenzione dell'Aia era stata recepita dal Marocco solo nel 2016, ossia pochi giorni prima della malattia in questione, ma anche perché il datore di lavoro avrebbe potuto, egli stesso, verificare l'effettiva insussistenza malattia.

La decisione della Corte.

La Corte di Cassazione, ha affermato che l'apostille incide sull'autenticità formale e sostanziale di un documento da utilizzare con valore giuridico in un paese straniero.

La mancanza della postilla, dunque, lungi dal rappresentare un vizio esclusivamente formale del certificato, ne determina l'inesistenza, essendo elemento consustanziale ad esso.

Nel caso di specie, pertanto, poiché la certificazione presentata dalla lavoratrice era priva di tale requisito, la stessa non era idonea a certificare né la provenienza dell'atto da un soggetto abilitato allo svolgimento della professione sanitaria, né la diagnosi e la prognosi di malattia come attestate da un soggetto competente, non assumendo alcuna rilevanza, in senso contrario, l'eventuale traduzione in italiano.

Di fronte ad un simile documento, ha proseguito la Corte, la sentenza della Corte territoriale aveva perciò errato nella parte in cui, in diritto, aveva affermato che al datore di lavoro non sarebbe stato precluso di verificare, anche successivamente, la legittimità dell'assenza.

In caso di assenza ingiustificata, infatti, sul datore di lavoro grava esclusivamente l'onere di provare la condotta che ha determinato l'erogazione della sanzione disciplinare e, quindi, di provare il fatto nella sua oggettività, mentre è il lavoratore che deve provare gli elementi che possono giustificarlo.

Tale prova, proseguono gli ermellini, non poteva ritenersi raggiunta, perché il documento presentato dalla ricorrente non aveva alcun valore giuridico, né poteva costituire elemento idoneo a elidere l'elemento soggettivo, la mancata conoscenza da parte della stessa delle procedure necessarie per la validità dei certificati medici inviati dal Marocco.

La Corte ha dunque accolto il ricorso del datore di lavoro e rinviato la decisione alla Corte d'appello. 

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