"Se qualcuno non è d'accordo, è libero di andarsene", questo il contenuto di una mail inviata dal proprietario di un'impresa di ristorazione ai dipendenti che si erano lamentati dei turni di lavoro massacranti cui erano costretti.
Incriminato per estorsione, il ristoratore veniva assolto in primo ed in secondo grado per insussistenza del fatto; nello specifico, i giudici del merito ritenevano che l'espressione usata nelle mail non fosse idonea a coartare la volontà dei dipendenti, perché la scelta di rimanere o meno nell'azienda veniva di fatto lasciata alla libertà decisionale dei dipendenti.
Già in passato, la Suprema Corte ha più volte ribadito che integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, per costringere i suoi dipendenti ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate e, più in generale, condizioni di lavoro contrarie alle leggi o ai contratti collettivi, li minacci di licenziamento (cfr., Cass. Pen., 2, 27.11.2013 n. 50.074, Bleve; Cass. Pen., 2, 10.10.2014 n. 677, Di Vincenzo e Cass. Pen., 2, 14.2.2017 n. 11.107, Tessitore, in entrambe le quali è stata ritenuta idonea ad integrare la fattispecie incriminatrice anche una condotta di minaccia "larvata").
Ai fini della configurabilità del reato, poi, la giurisprudenza ha reputato indifferenti sia la forma che il modo della minaccia, potendo questa essere manifesta o implicita, palese o larvata, diretta o indiretta, reale o figurata, orale o scritta, determinata o indeterminata, purché comunque idonea, in relazione alle circostanze concrete, a incutere timore ed a coartare la volontà del soggetto passivo.
In definitiva, secondo la prevalente giurisprudenza, la connotazione di una condotta come minacciosa e la sua idoneità ad integrare l'elemento strutturale del delitto di estorsione vanno valutate in relazione a concrete circostanze oggettive, quali la personalità sopraffattrice dell'agente, le circostanze ambientali in cui lo stesso opera, l'ingiustizia della pretesa, le particolari condizioni soggettive della vittima, una effettiva intimidazione del soggetto passivo.
La sentenza che si annota assume particolare rilevanza perché rappresenta, per certi versi, un superamento di tali impostazioni.
Nello specifico, la Cassazione ha ritenuto che, in ambito lavorativo, la configurabilità dell'estorsione prescinda dalle condizioni economico-ambientali o dalle condizioni personali del lavoratore e che il reato sussista per il semplice fatto che il datore di lavoro costringa il lavoratore ad accettare condizioni di lavoro inique e deteriori dietro la minaccia (anche indiretta) dell'interruzione del rapporto di lavoro.
Le massime
"Integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell'offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate".
"Il requisito della particolare condizione soggettiva della persona offesa non è richiesto al fine della configurazione del reato, che si realizza nel momento in cui il datore di lavoro prospetta la perdita del lavoro, approfittando della naturale condizione di prevalenza che veste rispetto al lavoratore subordinato ed alla strutturale condizione a lui favorevole della prevalenza dell'offerta sulla domanda di lavoro".
Cass., sez. II, sent. n. 3724/2022.
Il caso.
I dipendenti di un'impresa di ristorazione si costituivano parte civile nel procedimento penale a carico del datore di lavoro, imputato per il reato di estorsione, per aver costretto i propri dipendenti, con la minaccia di licenziamento, a lavorare oltre l'orario di lavoro, in maniera sostanzialmente ininterrotta (anche per venti ore al giorno), espletando compiti non attinenti alle loro mansioni e senza ricevere la giusta retribuzione per il lavoro prestato.
Secondo i giudici del primo e del secondo grado, il fatto che il datore di lavoro prospettasse ai lavoratori, come alternativa al rispetto delle condizioni di lavoro da lui dettate, la libertà di dimettersi, non costituiva minaccia idonea ad integrare il reato di estorsione: il datore di lavoro, dopo aver impartito le proprie direttive, aveva semplicemente specificato che "se qualcuno non è d'accordo è libero di andarsene", facendo, quindi espresso riferimento alla libertà decisionale del lavoratore nel caso in cui non condividesse le direttive impartite.
Secondo i giudici del merito, poi, non erano stati acquisiti elementi idonei a suffragare l'esistenza di un ulteriore presupposto di configurabilità del reato di estorsione, ossia le particolari condizioni soggettive della vittima, che in ambito lavorativo si traducono in una particolare condizione di debolezza in relazione al contesto economico o socio-familiare.
La decisione della Cassazione.
Secondo la Corte i giudici del merito non avevano considerato che la nozione stessa di minaccia implica proprio che sia rimessa alla volontà della vittima del reato una facoltà di scelta: la scelta tra l'osservanza della condotta pretesa dall'autore della minaccia e il male ingiusto prospettato, dunque la rimessione al soggetto passivo del reato della scelta della condotta da adottare, non era considerazione cui era possibile far ricorso al fine di escludere la sussistenza della minaccia.
Il senso evidente della frase "chi non è d'accordo è libero di andare via", ha proseguito la Cassazione, è quello di porre il lavoratore di fronte all'alternativa di accettare condizioni inique di lavoro o di perderlo.
Al riguardo appare al Collegio irrilevante la circostanza circa la asserita "totale assenza dell'imposizione": risulta, invero, evidente che nella sostanza, per via dell'impellente necessità di lavorare, in assenza di attuali possibilità alternative, le persone offese, limitate nella loro libertà negoziale, si vedevano costrette ad accettare le condizioni imposte dagli imputati che prevedevano, ora il rilascio del foglio di dimissioni firmato in bianco, ora l'accettazione di condizioni retributive illegittime e comunque inferiori a quanto risultava dalle buste paga.
Quanto all'ulteriore presupposto costituito dalla particolare situazione di debolezza del soggetto passivo, dovuto al contesto economico di appartenenza o all'ambiente familiare di appartenenza, nella sentenza che si annota la Cassazione afferma che tale presupposto non è indispensabile al fine della configurazione del reato.
Quest'ultimo, affermano gli ermellini, si realizza nel momento in cui il datore di lavoro prospetta la perdita del lavoro, approfittando della naturale condizione di prevalenza che veste rispetto al lavoratore subordinato e alla strutturale condizione a lui favorevole della prevalenza dell'offerta sulla domanda di lavoro.
Ciò che ammanta di rilievo penale una condotta siffatta, conclude la Suprema Corte, non va rinvenuta nelle condizioni economico-ambientali o nelle condizioni personali del lavoratore, ma nel fatto che il datore di lavoro coarti il lavoratore nel senso di accettare condizioni di lavoro inique e deteriori dietro la minaccia dell'interruzione del rapporto di lavoro, restando indifferente il contesto socio ambientale e familiare in cui tale coartazione viene attuata.