L'articolo 9 del codice deontologico forense intitolato "doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza," afferma al comma 2 che, l'avvocato anche al di fuori dell'attività professionale, deve osservare i doveri di probità, dignità e decoro, nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione forense.
Pertanto, è responsabile disciplinarmente l'avvocato che tenga condotte lesive di tali doveri anche se non commessi nell'esercizio della professione.
Tale statuizione è stata di recente confermata da una sentenza del Consiglio nazionale Forense del 9 maggio 2022, n. 45, vediamo perché.
Un avvocato veniva citato a giudizio immediato per atti persecutori, lesioni e minacce gravi poste in essere contro la ex moglie ed i familiari della donna.
La Procura della Repubblica presso il tribunale di Siracusa, segnalava il caso al COA ed il legale veniva citato a giudizio disciplinare per violazione, appunto, dell'art. 9 comma 2.
Difatti, ponendo in essere tali condotte egli non osservava i doveri di probità, dignità e decoro, nella salvaguardia della propria reputazione e di quella della professione forense.
Avverso il provvedimento sanzionatorio, il legale presentava ricorso sulla base di tre motivi contenuti in due paragrafi: 1) inesistente e/ o apparente motivazione in merito all'accertamento della responsabilità, in quanto consistente nel mero richiamo delle conclusioni della sentenza penale, omessa l'autonoma valutazione dei fatti in sede disciplinare, giacché gli stessi non hanno alcuna attinenza con la professione;
2) violazione del diritto di difesa per assenza dell'udienza;
3) mancata motivazione della scelta della sanzione ritenuta eccessiva e sproporzionata, atteso che i fatti furono occasionati da dolo d'impeto e che i rapporti familiari hanno comunque trovato un pacifico equilibrio.
Per tali motivi il ricorrente chiedeva l'annullamento del provvedimento del CDD e in subordine l'applicazione della sanzione minima.
Innanzitutto, il Consiglio evidenzia che, l'assenza dell'incolpato o del suo difensore all'udienza dibattimentale determina il necessario rinvio, solo se risulta comprovata l'assoluta impossibilità a comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, che deve essere specifico e documentato.
L'impedimento del professionista a comparire davanti il giudice disciplinare non esiste, se non provata da un apposito certificato medico che dimostri il legittimo impedimento, né il giudice è tenuto a disporre accertamenti in tal senso per completare l'insufficiente documentazione prodotta.
Il Consiglio ritiene disciplinarmente responsabile l'avvocato per le condotte che, anche se non riguardanti in senso stretto la professione di avvocato, riflettendosi negativamente sull'attività professionale compromettono l'immagine dell'avvocatura e consentano una perdita di credibilità della categoria.
In relazione al caso specifico ed alle doglianze del ricorrente, si rileva che le condotte contestate si erano protratte per vari mesi e non rileva il fatto che esse erano estranee all'attività professionale in quanto in ossequio all'art. 2 anche i comportamenti assunti nella vita privata hanno valore se compromettono l'immagine della categoria quale entità astratta con contestuale perdita della credibilità della categoria ( Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 168 del 30 luglio 2021; Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 166 del 17 luglio 2021).
Ora è certo che le condotte del legale, continue e perpetrate nei confronti dell'intero nucleo familiare della moglie separata e financo del suo avvocato, hanno leso gravemente sia la sua reputazione che l'immagine della professione forense pertanto viene confermato il provvedimento sanzionatorio seppur alla luce della avvenuta normalizzazione dei rapporti con l'ex moglie.
Il Consiglio nazionale forense ritiene però di poter rimodulare la sanzione originariamente inflitta della radiazione dall'albo, con quella della sospensione dall'esercizio della professione per anni cinque in considerazione del comportamento successivo ai fatti nell'ottica di un ravvedimento operoso e ciò in quanto tale comportamento riparativo ha prodotto una riduzione della lesione del bene giuridico tutelato dal precetto deontologico contestato.