Di Elsa Sapienza su Venerdì, 23 Febbraio 2024
Categoria: Famiglia e Conflitti

Dossier fotografico dell’investigatore privato e prova nel processo dell’infedeltà coniugale.

 Strano scherzo del destino, ma, è proprio del giorno di San Valentino, una interessante sentenza della Suprema Corte in tema di addebito ed infedeltà coniugale.

Un uomo si rivolge al Tribunale di Trani, proponendo domanda di separazione con addebito, nei confronti della moglie che a suo dire lo aveva tradito.

Per provare quanto dichiarato, allega al ricorso tutta una serie di fotografie, corredate da apposita relazione, preparata da un investigatore privato.

Il Tribunale, accoglie le sue richieste pronunciandosi anche in relazione alle frequentazioni tra padre e figli e quantificando l'assegno di mantenimento.

Ma la donna reagisce ricorrendo in appello. I giudici di secondo grado, però, confermano l'addebito rideterminando la misura del mantenimento.

Ma la donna non si arrende ed arriva fino in Cassazione, ove i suoi legali contestano l'utilizzabilità delle prove dell'addebito, vale a dire la relazione dell'investigatore privato.

Secondo gli avvocati, la Corte di Appello avrebbe errato nell'attribuire valenza probatoria al suddetto documento, in quanto le relazioni investigative costituirebbero prova solo a condizione che l'investigatore venga escusso nel contradditorio tra le parti. Nel caso in questione, ciò non era accaduto, l'investigatore non era mai stato assunto quale teste nel corso del giudizio, pertanto, alcuna valenza probatoria poteva ascriversi alle relazioni investigative.

 Ed ancora, affermano i legali, nelle più recenti sentenze della Cassazione tali documenti sono stati considerati prove purché escusso l'investigatore nel contraddittorio tra le parti; o ancora nel caso in cui non siano state assunte come prova, le relazioni degli investigatori, sono state considerate, a seconda dei contrapposti orientamenti della nostra giurisprudenza, talora come prove atipiche, in altre occasioni presunzioni semplici ex art. 2729 c.c., ovvero come meri argomenti di prova.

Invece il Tribunale di Trani, aveva adottato una motivazione logica e ricettiva degli elementi emersi nel corso della corposa istruttoria, senza soffermarsi sugli elementi detti, con una ipotesi di motivazione per relationem, quindi inammissibile.

Intervenuta la Corte con la sentenza numero 4038 del 14 febbraio 2024, si è pronunciata dichiarando inammissibile tale parte del ricorso.

Secondo i giudici, la censura in esame investe non un fatto inteso in senso storico e avente valenza decisiva, ma, elementi probatori suscettibili di valutazione, come appunto la relazione investigativa, rientrante tra le prove atipiche liberamente valutabili nel giudizio civile ai sensi dell'articolo 116 c.p.c., di cui il giudice è legittimato ad avvalersi, atteso che nell'ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova.

 In particolare, nel caso in questione, il giudice, correttamente, aveva utilizzato la relazione scritta e redatta dall'investigatore privato, come una delle prove atipiche avente valore indiziario ed acquisita insieme ad altri elementi di prova ritualmente acquisiti.

Inoltre, la relazione investigativa era formata anche da materiale fotografico, la cui utilizzabilità ai fini decisori, è espressamente riconosciuta dall'articolo 2712 c.c., anche in presenza di disconoscimento della parte contro la quale il materiale fotografico viene prodotto.

Tutto ciò comporta che, il disconoscimento delle fotografie per i giudici, non produce gli stessi effetti del disconoscimento di cui all'articolo 215, secondo comma, c.p.c., poiché mentre questo preclude l'utilizzo della scrittura prodotta, nel caso del materiale fotografico, non è escluso che il giudice possa accertare la conformità all'originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni ed altri mezzi probatori.

In conclusione, secondo i giudici della Suprema Corte, "le doglianze relative alla relazione investigativa, oltre ad essere impropriamente formulate perché non concernenti un fatto storico, neppure sono pertinenti nel senso che si è precisato".

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