La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 9338 del 4 aprile 2019 ha stabilito che si ha diffamazione a mezzo stampa quando in un servizio giornalistico avente ad oggetto la cronaca dell'udienza di un processo penale in fase di appello, l'utilizzo del verbo indicativo induce il telespettatore a ritenere i fatti prospettati come veri e obiettivi. Nella specie, l'uso di tale verbo ha indotto il telespettatore a ritenere come per accertati comportamenti omissivi dei pubblici ministeri che, in realtà, non risultavano dagli atti di causa, ma dalla sola tesi difensiva.
Vediamo nel dettaglio la questione sottoposta all'esame di Giudici di legittimità
I fatti di causa.
L'editore, il direttore e il giornalista di una testata radiotelevisiva sono stati condannati al risarcimento dei danni in favore dei magistrati che rappresentavano l'accusa nella causa oggetto del sevizio giornalistico realizzato da tale testata e relativo alla cronaca di un'udienza penale in fase di appello. Nel corso di questo servizio:
- sono stati menzionati i pubblici ministeri che hanno condotto le indagini e che hanno rappresentato l'accusa anche nel dibattimento di appello;
- è stato riportato che detti magistrati hanno falsificato e utilizzato un documento falso, dopo che lo stesso è stato da essi acquisito.
La testata giornalista, nelle persone su indicate, è stata denunciata per diffamazione a mezzo stampa e condannata al risarcimento dei danni. E ciò in considerazione del fatto che le notizie esposte sono state ritenute illecite. Dello stesso avviso è stata la Corte di appello che, riformando la sentenza di primo grado, ha accolto la domanda dei magistrati.
Il caso è giunto dinanzi ai Giudici di legittimità su iniziativa dell'editore, del direttore e del giornalista della testata in questione.
La decisione della SC.
Innanzitutto, appare opportuno rilevare che quando si parla di diritto di cronaca, al fine di non incorrere nella diffamazione a mezzo stampa, è necessario, oltre all'interesse pubblico della notizia, il rispetto dei criteri:
- della veridicità dei fatti narrati;
- della continenza, «che presuppone obiettività e completezza ed esclude insinuazioni, illazioni, suggerimenti e diffusione di messaggi capziosi» (Cass. civ., n. 5005/2017).
Con particolare riferimento a tale ultimo requisito, ciò che rileva è proprio «la correttezza nelle espressioni verbali utilizzate e la non eccedenza dai limiti di quanto strettamente necessario per il pubblico interesse» (Cass. civ., n. 5005/2017).
Premesso questo, tornando al caso di specie, ad avviso dei Giudici di legittimità, tali criteri non sono stati rispettati. Infatti, l'autore del servizio, nel rappresentare il processo oggetto del servizio stesso, «non ha in alcun modo sottolineato che quelle relative alla falsificazione, e comunque all'epurazione di parti del documento utilizzato dai pubblici ministeri erano affermazioni di uno dei difensori dell'imputato». In pratica, la cronaca dell'udienza penale, oggetto del servizio, è stata condotta in modo da:
- far emergere che l'utilizzo del documento falso da parte dei magistrati sia stato alla base di comportamenti omissivi posti in essere dagli stessi;
- far ritenere detti comportamenti causa della nullità della sentenza penale;
- indurre il telespettatore a ritenere le omissioni dei pubblici ministeri come accertate.
Omissioni, queste, invece, non risultanti dagli atti del giudizio, ma oggetto della tesi difensiva di uno degli imputati e non provate nel corso del giudizio.
Secondo la Corte di cassazione, che durante la realizzazione del servizio in questione si sia omesso il rispetto dei canoni della veridicità e della continenza, discende anche dal fatto che nel rendere l'informazione è mancato l'uso del verbo al condizionale, essendo stato utilizzato sempre l'indicativo. Questo ha indotto il telespettatore meno attento a ritenere i fatti come veri e obiettivi. Infatti «il servizio giornalistico non è stato costruito mediante fedele citazione delle frasi usate dal difensore, bensì con un riassunto esplicativo nel quale è stato il giornalista a riferire il contenuto dell'addebito che, mediante l'uso del verbo all'indicativo, ha fatto apparire all'ascoltatore radiotelevisivo che i fatti riferiti corrispondessero a circostanze fattuali emergenti dagli atti del processo e non ad una mera tesi difensiva [...] (in materia di rispetto dei canoni della verità [oggettiva o anche soltanto putativa] e della continenza si richiama la costante giurisprudenza della Corte: Cass. n. 0205 del 19/01/2007)». In questo modo nel telespettatore (o nella maggioranza dei telespettatori, meno attenti) è stato minato «il fondamento di ogni rispetto e considerazione nei confronti dei pubblici ministeri, non solo sotto il profilo dell'onore e della reputazione, quali magistrati, quanto ad onestà ed imparzialità, ma anche quali persone.»
Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, pertanto, la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la decisione impugnata.