Con ordinanza n. 25856 del 16 ottobre 2018, la Corte di Cassazione ha stabilito che il datore di lavoro che non provvede al pagamento dei contributi è tenuto al pagamento anche per la quota a carico dei lavoratori, senza possibilità di una rivalsa successiva nei confronti di questi ultimi. Ma vediamo nel dettaglio la questione sottoposta ai Giudici di legittimità. La ricorrente ha appellato la sentenza con cui in primo grado, il Tribunale ha accolto il ricorso del suo dipendente. In buona sostanza, quest'ultimo, a fronte dell'omesso pagamento dei contributi da parte della ricorrente, ne ha chiesto la relativa condanna. La società, datrice di lavoro, ha chiesto, a sua volta, la restituzione della quota dei contributi che dovrebbe essere posta a carico del lavoratore. Infatti, a suo dire, il fatto che tale tale quota sia stata imputata al dipendente, integra gli estremi di un arricchimento senza giusta causa ai sensi dell'art. 2041 c.c. La Corte di Appello ha confermato la sentenza di primo grado che ha ritenuto applicabile il principio fissato dall'art. 23, Legge n. 218/1952 (Riordinamento delle pensioni dell'assicurazione obbligatoria per la invalidità, la vecchiaia ed i superstiti), rigettando la domanda della ricorrente. Il caso è giunto in Corte di Cassazione. I Giudici di legittimità, innanzitutto, partono dall'esame della normativa vigente in materia degli obblighi contributivi. L'art. 19, della Legge n. 218/1952 su richiamata, stabilisce che "il datore di lavoro è responsabile del pagamento dei contributi anche per la parte a carico del lavoratore; qualunque patto in contrario è nullo. Il contributo a carico del lavoratore è trattenuto dal datore di lavoro sulla retribuzione corrisposta al lavoratore stesso alla scadenza del periodo di paga cui il contributo si riferisce". Il successivo art. 23 della predetta legge prevede che "il datore di lavoro che non provvede al pagamento dei contributi entro il termine stabilito o vi provvede in misura inferiore alla quota dovuta è tenuto al pagamento dei contributi o delle parti di contributo non versate tanto per la quota a proprio carico quanto per quella a carico dei lavoratori".
Da questa premessa normativa, appare evidente che le due disposizioni si riferiscono a due situazioni differenti:
- la prima norma si riferisce alla situazione normale in cui il datore paga i contributi alla scadenza del periodo di paga;
- la seconda riguarda una situazione patologica, ossia l'ipotesi in cui il datore di lavoro omette il pagamento di detti contributi o ne ritarda l'adempimento.
In tale ultima ipotesi, derivano delle conseguenze rilevanti in punto di responsabilità del datore di lavoro. Infatti, mentre, nella fattispecie di cui all'art. 19 della legge su menzionata, il datore di lavoro ha diritto a trattenere "il contributo a carico del lavoratore...sulla retribuzione corrisposta...alla scadenza del periodo di paga cui il contributo si riferisce"; nella seconda, il datore di lavoro resta "tenuto al pagamento dei contributi o delle parti di contributi non versate, tanto per la quota a proprio carico che per la quota a carico del lavoratore". Orbene, alla luce di tanto, appare evidente, che a causa del comportamento omissivo o tardivo del datore di lavoro, in punto di contribuzione obbligatoria, resta escluso qualsivoglia diritto di rivalsa da parte di quest'ultimo nei confronti dei lavoratori, per il recupero della quota di contributi spettante a costoro. E tale irrecuperabilità, a parere della Suprema Corte, ha carattere generale nell'ordinamento previdenziale, perché è espressione di quei principi di buona fede e correttezza che dovrebbero essere vigenti nell'attuazione di ogni contratto di lavoro caratterizzato da connotati privatistici.
Tale interpretazione non può essere contrastata, neppure, invocando l'applicazione dell'art. 2115 c.c., secondo cui l'imprenditore, ossia datore di lavoro, è responsabile del versamento del contributo, anche per la parte che è a carico del prestatore di lavoro, salvo il diritto di rivalsa secondo le leggi speciali. E ciò in considerazione della clausola di salvezza contenuta nella predetta norma, nella quale il rinvio alla legislazione speciale (quale appunto quella su richiamata contenuta negli artt. 19 e 23 L. n. 218/1952), in punto, non ha una funzione meramente complementare e accessoria, bensì fondamentale. D'altro canto non può essere altrimenti, dal momento che la concentrazione in via definitiva del debito contributivo in capo al datore di lavoro (secondo un principio acquisito nella legislazione previdenziale già con l'art. 111, R.D. n. 1827/1935, in materia di assicurazioni obbligatorie) appare l'evidente elemento distintivo delle situazioni tipizzate dal legislatore attraverso disposizioni che risulterebbero prive di alcuna concreta utilità normativa ove l'art. 23 si limitasse a confermare quanto già previsto nell'art. 19. Infatti, secondo i Giudici di legittimità, non bisogna trascurare che che l'art. 19 suddetto prevede solo che il datore di lavoro è tenuto al pagamento dei contributi, avendo diritto a trattenere la quota spettante in capo al dipendente, mentre l'art. 23 prevede che il datore di lavoro è tenuto al pagamento per l'intero, senza null'altro aggiungere. La differenza tra le due norme si rinviene nel comportamento inadempiente e antigiuridico del datore di lavoro (omissione o ritardo nel versamento dei contributi), che ove posto in essere, giustificherebbe l'esclusione del diritto di rivalsa di quest'ultimo. Infatti, in tali casi, è il datore di lavoro che deve assumersi la responsabilità del suo inadempimento, senza possibilità di rivalersi sul lavoratore. Tornando al caso in esame, la Suprema Corte di Cassazione, sulla base di tali considerazioni, ha ritenuto infondate le doglianze della ricorrente e ha rigettato l'impugnazione, confermando la sentenza d'appello.