I contributi previdenziali dovuti dal datore di lavoro agricolo sui corrispettivi corrisposti agli operai a tempo determinato vanno calcolati, ai sensi del combinato disposto del D.L. n. 338 del 1989, art. 1, comma 1, (conv. con L. n. 389 del 1989), e del CCNL 6 luglio 2006, art. 40, esclusivamente sulle ore effettivamente lavorate, salvo che in concreto risulti che, in occasione di interruzioni dovute a causa di forza maggiore, il datore di lavoro abbia disposto che l'operaio rimanga nell'azienda a sua disposizione.
Corte di Cassazione, sez. lav., sentenza del 4 dicembre 2023, n. 33839.
Premessa.
Con l'espressione "minimale contributivo" si indica la retribuzione minima da utilizzare come base di calcolo dei contributi previdenziali ed assicurativi che il datore di lavoro deve versare all'ente previdenziale in relazione alla prestazione svolta dal dipendente.
Nel lavoro agricolo a tempo determinato si dibatte sulla possibilità di individuare un minimale contributivo indipendente dal salario dovuto.
La tesi favorevole alla configurabilità di un generale principio che imporrebbe di commisurare la prestazione retributiva ad un orario minimo obbligatorio, trae fondamento giuridico da alcune disposizioni della contrattazione collettiva – e, segnatamente, dagli artt. 30 e 40 del CCNL per gli operai agricoli e florovivaisti – oltre che dalla giurisprudenza comunitaria.
Conla sentenza n. 33839/2023, la sezione lavoro della Cassazione, ha stabilito, invece, che il calcolo dell'onere contributivo non deve essere effettuato sull'orario normale di 6,30 ore settimanali - né su qualsivoglia orario minimo obbligatorio - ma sulle ore effettivamente lavorate dal dipendente, anche se di numero inferiore, fornendo altresì una diversa interpretazione di quegli stessi riferimenti normativi e giurisprudenziali utilizzati per sostenere la tesi opposta.
Il fatto.
Un folto gruppo di aziende agricole presentava opposizione avverso gli avvisi di addebito con cui l'INPS aveva loro ingiunto il pagamento di differenze contributive e sanzioni civili in relazione agli operai agricoli assunti a tempo determinato.
Il giudice di primo grado accoglieva il ricorso, ma la Corte territoriale, investita dell'impugnazione proposta dall'INPS, riformava la sentenza di primo grado, confermando la legittimità della pretesa creditoria avanzata dall'ente previdenziale.
Secondo la Corte d'appello, in materia di contributi agricoli, l'obbligazione retributiva del datore di lavoro deve essere commisurata all'orario ordinario full time previsto dalla contrattazione collettiva soggettivamente efficace, sussistendo per il lavoro agricolo a tempo determinato la regola in base alla quale la prestazione retributiva deve essere commisurata ad un orario minimo obbligatorio, salvo, ad avviso della medesima Corte del merito, che le parti non negozino la riduzione dell'orario di lavoro, concludendo un contratto part time.
Avverso tale pronuncia le aziende proponevano ricorso per Cassazione
La decisione della Cassazione.
Secondo la Corte di Cassazione non è possibile definire alcun minimale contributivo indipendente dal salario dovuto sulla base delle norme contrattuali e, pertanto, i contributi previdenziali dovuti dai datori di lavoro agricoli sui corrispettivi corrisposti agli operai a tempo determinato devono essere calcolati, ai sensi del combinato disposto dell'art. 1, comma 1, D.L. n. 338/1989 e dell'art. 40, CCNL 6 luglio 2006, esclusivamente sulle ore effettivamente lavorate, salvo che in concreto risulti che, in occasione di interruzioni dovute a causa di forza maggiore, il datore di lavoro abbia disposto che l'operaio rimanga nell'azienda a sua disposizione.
Né la contrattazione, né la legislazione comunitaria, né, tantomeno, i precedenti della giurisprudenza comunitaria, possono, infatti, secondo la Suprema Corte, giustificare la tesi dell'esistenza di un principio che imporrebbe un minimale contributivo indipendente dal salario dovuto.
Infatti, prosegue la sentenza, l'art. 30, comma 1, CCNL 6 luglio 2006 per gli operai agricoli e florovivaisti, nella parte in cui prevede che "l'orario di lavoro è stabilito in 39 ore settimanali pari ad ore 6,30 giornaliere", si limita esclusivamente ad individuare il limite massimo dell'orario normale settimanale e, specularmente, di quello giornaliero, calcolato come parte aliquota di quello settimanale, senza, tuttavia, dettare alcuna previsione circa l'orario minimo giornaliero esigibile dal prestatore di lavoro; invece, il successivo art. 40, nel prevedere, al comma 1, che "l'operaio a tempo determinato ha diritto al pagamento delle ore di lavoro effettivamente prestate nella giornata", detta addirittura una norma logicamente incompatibile con il concetto di orario di lavoro settimanale e di orario giornaliero, atteso che esso svincola la retribuzione dovuta dal riferimento ad un tempo di lavoro precostituito ed individuabile in termini generali e astratti.
A contrarie conclusioni - si specifica nel provvedimento in commento - non è dato pervenire nemmeno considerando il divieto di non discriminazione dei lavoratori a termine di cui alla clausola 4 della direttiva 99/70/CE, dal momento che detto divieto attiene al rapporto di lavoro inter partes e può, a tutto concedere, legittimare eventuali pretese del lavoratore di ottenere più di quanto in concreto corrispostogli, ma non certo l'ente previdenziale ad una diversa e maggiore pretesa in termini di contributi previdenziali, esulando la materia del rapporto contributivo dalle previsioni del diritto dell'Unione.
Analogamente, concludono i giudicanti, deve dirsi in riferimento alle previsioni delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE, le quali disciplinano esclusivamente l'orario massimo di lavoro esigibile, ma nulla dicono né in ordine all'orario normale né tampoco in termini di orario minimo garantito al prestatore di lavoro.
Dunque, in mancanza di elementi di segno contrario, deve escludersi che nel lavoro agricolo il calcolo contributivo possa essere effettuato su un monte ore minimo svincolato dall'orario lavorativo effettivo.