L'articolo 28 della Legge n. 300 del 1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori) definisce come antisindacale qualsiasi comportamento diretto ad impedire o limitare l'esercizio della libertà e dell'attività sindacale nonché del diritto di sciopero.
Secondo l'orientamento giurisprudenziale maggioritario per identificare una data condotta come "antisindacale" è sufficiente che il comportamento posto in essere dal datore di lavoro si configuri come effettivamente lesivo degli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo, invece necessario uno specifico "animus" lesivo in capo al datore di lavoro.
Infatti può aversi condotta antisindacale sia come conseguenza di un atto negoziale sia come conseguenza di un comportamento materiale, e può avere sia forma attiva concretizzandosi in un "facere", che forma omissiva.
A titolo esemplificativo e non esaustivo, ripercorrendo i vari arresti giurisprudenziali in materia, è stato ritenuto antisindacale il licenziamento per assenza ingiustificata dal posto di lavoro del sindacalista che aveva fruito di un permesso sindacale non retribuito, fornendo ogni informazione, ma che non aveva reiterato tale richiesta secondo determinate forme e modalità pretestuose e persecutorie ( Cassazione n. 9250 del 2007); nonché l comportamento del datore di lavoro (lesivo del diritto di sciopero) che in presenza di un contratto aziendale che consentiva di assumere lavoratori a termine per prestazioni da svolgersi nei giorni di sabato e domenica, aveva disposto che tali lavoratori prestassero attività in altri giorni al fine di sostituire lavoratori in sciopero, mortificando così la ratio del diritto di sciopero (Cassazione n. 10624 del 2006).
Tali condotte trovano una ben precisa tutela processuale tramite l'esperibilità del procedimento previsto dal detto articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori.
Affinchè i soggetti legittimati a stare in giudizio ossia "gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse" (cioè le organizzazioni di categoria territoriali ed i sindacati orizzontali regionali) con esclusione quindi del singolo lavoratore, degli organismi sindacali nazionali e delle rappresentanze sindacali aziendali) possano agire, è necessaria però l'attualità della condotta antisindacale da intendersi non solo in riferimento ad una singola condotta che nella propria singolarità può anche essersi conclusa, ma, al fatto, che il comportamento lesivo del datore di lavoro risulti persistente ed idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo.
Il comportamento antisindacale può anche investire ulteriori interessi rispetto ai diritti sindacali formalmente riconosciuti, potendosi configurare tale ipotesi anche a fronte della violazione di un diritto facente capo ad uno o più lavoratori nell'esercizio individuale dei diritti sindacali da cui emerga una indiretta lesione dei diritti collettivi (c.d. criterio di plurioffensività).
In tutti questi casi l'autorità giudiziaria da adire per la tutela per "il libero esercizio della tutela sindacale di tutti i lavoratori" è il Tribunale in funzione di Giudice del lavoro del luogo ove è posto in essere il comportamento antisindacale denunziato.
Il procedimento viene introdotto mediante apposito ricorso presentato dall'associazione sindacale.
Nei due giorni successivi il Giudice, convocate le parti ed assunte sommarie informazioni, qualora ritenga sussistente la violazione denunciata, e, quindi accertata la sussistenza della violazione, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo ordina al datore di lavoro la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione dei suoi effetti.
Contro tale decreto è ammessa opposizione innanzi al giudice del lavoro entro 15 gg dalla comunicazione alle parti; in questo caso si aprirebbe una seconda fase del procedimento che non andrebbe a sospendere comunque l'efficacia esecutiva del decreto del giudice che non può essere revocata fino all'emissione della sentenza con la quale il giudice definisce il giudizio di opposizione.
Il datore di lavoro che non ottempera al decreto del giudice o alla sentenza emessa nel giudizio di opposizione viene punito ai sensi dell'articolo 650 c.p. con l'arresto fino a 3 mesi e con l'ammenda fino ad euro 206,58.
L'autorità giudiziaria ordina la pubblicazione della sentenza di condanna nei modi stabiliti dall'articolo 36 del c.p.
Detto procedimento trova applicazione anche per quello che riguarda i rapporti di lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni.