Fonti: https://www.consiglionazionaleforense.it/
Con sentenza n.269 del 20 giugno 2024 il Consiglio Nazionale Forense ha dichiarato l'illiceità disciplinare del comportamento dell'avvocato che, al momento dell'assunzione dell'incarico, ha omesso di accertare l'identità del cliente e, pur conoscendo la falsità della procura alle liti, ha omesso di rinunciare tempestivamente al mandato introducendo in giudizio prove basate sulla stessa procura che sapeva essere falsa.
I fatti del procedimento
Nella vicenda in esame l'avvocato è stato sottoposto a procedimento disciplinare in quanto nell'ambito di un processo esecutivo
- non ha accertato l'identità delle persone che gli avrebbero conferito l'incarico,
- ha introdotto e utilizzato atti come provenienti dalle parti assistite suffragati da una procura alle liti che lo stesso sapeva essere falsa, in quanto mai rilasciatagli dalle parti rappresentate e le cui firme ivi apposte sono state disconosciute dalle stesse.
Per tali condotte l'incolpato è stato sanzionato dal Consiglio Distrettuale di Disciplina Forense con la sospensione per due anni in quanto ritenuto responsabile della violazione, tra gli altri:
- dell'art. 23 comma 2 C.D.F. a norma del quale "L'avvocato, prima di assumere l'incarico, deve accertare l'identità della persona che lo conferisce e della parte assistita";
- dell'art.50 C.D.F. che disciplina il dovere di verità, in base al quale l'avvocato "non deve introdurre nel procedimento prove, elementi di prova o documenti che sappia essere falsi" (comma 1) e "non deve utilizzare nel procedimento prove, elementi di prova o documenti prodotti o provenienti dalla parte assistita che sappia o apprenda essere falsi." (comma2).
La decisione del Consiglio
Nella vicenda esaminata il Consiglio ha preso atto che la decisione del CDD è intervenuta a seguito di una sentenza penale di condanna da parte del Tribunale che ha accertato la responsabilità dell'imputato per essersi costituito nel suddetto giudizio esecutivo sulla base di una procura con sottoscrizione apocrifa dei clienti ed ha agito per incassare e trattenere danaro sulla scorta di una ulteriore procura per l'incasso sempre con sottoscrizione apocrifa dei predetti clienti.
La pronuncia penale ha ritenuto certa l'apocrifìa dei mandati dando atto i) sia del totale disconoscimento da parte dei clienti, ii) sia del fatto che gli stessi hanno negato di aver mai conosciuto l'avvocato, iii) sia del fatto che uno di essi, col quale l'incolpato assumeva avere avuto rapporti professionali, ha esplicitamente negato di avere mai conferito all'avvocato procure per l'incasso delle somme risultato della procedura esecutiva.
Sul piano disciplinare il Consiglio ha rilevato che
- le acquisizioni e le statuizioni in sede penale costituiscono elementi probatori di sicuro affidamento nonché idonei a provare che l'incolpato si sia in vario modo avvalso di più procure e mandati anche per poter incassare somme per conto dei clienti recanti sottoscrizioni non autentiche;
- l'incolpato ha agito, non già nell'interesse delle parti assistite, bensì perseguendo un suo interesse tanto che all'esito del procedimento esecutivo egli non ha consegnato o dato conto delle somme che avrebbe dovuto consegnare ai clienti.
Sul piano deontologico il Consiglio ha, inoltre, fornito dei chiarimenti riguardo alle previsioni dell'art. 50 CDF affermando che nella locuzione "prove o elementi di prova" utilizzata dai commi 1 e 2 del suddetto articolo devono considerarsi rientranti anche i documenti che comprovano l'effettività, l'autenticità del mandato alle liti ed a maggior ragione di un mandato speciale per l'incasso di somme oltre che la riconducibilità alla volontà dell'interessato.
Come rilevato dal Consiglio, infatti, la procura, o il mandato all'incasso è pur sempre un documento che prova l'esistenza di un peculiare rapporto negoziale, ossia quello che realizza il conferimento di un incarico per prestazione d'opera e che attribuisce un potere di rappresentanza processuale, molto spesso persino con la disponibilità di diritti processuali della parte assistita. Si tratta quindi di una prova la cui veridicità è oggetto di tutela ex art. 50 del codice deontologico.
Quanto al mancato accertamento dell'identità, il Consiglio ha rammentato che il precetto dell'art.23 CDF è rivolto a garantire che il mandato alle liti sia effettivamente rilasciato dalla parte assistita e, quindi, provenga indubitabilmente dalla sua volontà. In questo ambito il precetto prefigura alcuni dei possibili comportamenti che ledano quell'interesse. Pertanto i due primi commi dell'art. 23 sono formulati in modo da non lasciare spazi di non sanzionabilità a condotte che in vario modo possano determinare che l'avvocato agisca in giudizio, o per conto di un soggetto, senza la volontà di quest'ultimo e senza la formale espressione di tale volontà attraverso un atto scritto con certezza proveniente dall'interessato.
Per questi motivi il Consiglio Nazionale Forense ha confermato la responsabilità dell'avvocato.