Di Anna Sblendorio su Sabato, 02 Novembre 2024
Categoria: Deontologia forense: diritti e doveri degli avvocati

CNF. Il divieto dell'uso di espressioni sconvenienti: deontologia e disciplina codicistica

Fonti: https://www.consiglionazionaleforense.it/

Inquadramento normativo: art.89 c.p.c.; artt.42 e 52 cdf

Il codice deontologico forense vieta all'avvocato di utilizzare "espressioni offensive o sconvenienti negli scritti in giudizio e nell'esercizio dell'attività professionale nei confronti di colleghi, magistrati, controparti o terzi" (art.52 comma 1), nonché proibisce all'avvocato di esprimere apprezzamenti denigratori sull'attività professionale di un collega (art.42 comma 1) così come di esibire in giudizio documenti relativi alla posizione personale del collega avversario o di utilizzare notizie relative alla sua persona, salvo che il collega sia parte del giudizio e che l'utilizzo di tali documenti e notizie sia necessario alla tutela di un diritto.

Nonostante le suddette norme, spesso al Consiglio Nazionale Forense vengono sottoposti casi in cui le espressioni utilizzate dagli avvocati risultano offensive e non conformi ai doveri di probità, dignità e decoro che l'avvocato è tenuto ad osservare nei confronti di chiunque.

Limiti al diritto di difesa. Il Consiglio ha affermato il principio in base al quale il diritto di difesa non giustifica l'offesa, per cui l'avvocato non può far uso di "espressioni esorbitanti e gratuitamente offensive, ispirate da un ardore espositivo non aderente ai doveri di probità, dignità e decoro ai quali l'avvocato deve comunque conformarsi".

Casistica. Nella casistica della giurisprudenza disciplinare, infatti, è stato considerato illecito disciplinare ex art.52 cdf

Rapporti di colleganza. La norma di cui all'art.42, comma 1 cdf, vieta all'avvocato di esprimere apprezzamenti denigratori sull'attività professionale dei collega. Sul punto il Consiglio ha ritenuto illeciti ex art.42 cdf gli apprezzamenti denigratori sulle capacità professionali di un collega, in quanto eccedono il limite di compatibilità con le esigenze della dialettica processuale e dell'adempimento del mandato professionale. Peraltro,come sottolinea il Consiglio, l'art.42 cdf ammette tali apprezzamenti "seppur non in modo indiscriminato solo se il Collega stesso sia parte del giudizio e ciò sia necessario alla tutela di un diritto. Diversamente, quando cioè la diatriba trascenda sul piano personale e soggettivo, l'esigenza di tutela del decoro e della dignità professionale forense impone di sanzionare i relativi comportamenti". Nella specie nei propri scritti l'avvocato si è rivolto al collega con frasi tipo: "P.S. Un consiglio: domani dia un'occhiata alle mie memorie 183 e se le riesce si vergogni" ed ha definito le sue "tesi assurde" ritenendo che esse dimostrino "palmari carenze sul piano tecnico giuridico"(CNF, sentenza n.73 del 13 marzo 2024).

 Irrilevanza del contesto e assenza di scriminanti. Il Consiglio ha ribadito più volte il principio in base al quale "L'avvocato ha il dovere di comportarsi, in ogni situazione (quindi anche nella dimensione privata e non propriamente nell'espletamento dell'attività forense), con la dignità e con il decoro imposti dalla funzione che l'avvocatura svolge nella giurisdizione e deve in ogni caso astenersi dal pronunciare espressioni sconvenienti od offensive, la cui rilevanza deontologica non è peraltro esclusa dalla provocazione altrui, né dalla reciprocità delle offese, né dallo stato d'ira o d'agitazione che da questa dovesse derivare, non trovando applicazione in tale sede l'esimente prevista dall'art.599 c.p.". Ne discende l'illiceità disciplinare del comportamento dell'avvocato che, nel caso di specie si è rivolto alla propria ex moglie con appellativi indecorosi tra cui "infame", "parassita", peripatetica", "avida", "falsa", "struzzo", nonché ha inviato ripetute comunicazioni scritte alla moglie dal contenuto denigratorio e minaccioso (CNF, sentenza n.107 del 27 marzo 2024).

Disciplina codicistica. L'art.89 c.p.c. vieta alle parti e ai loro difensori di inserire negli scritti presentati e nei discorsi pronunciati davanti al giudice, espressioni sconvenienti od offensive (comma 1) e attribuisce al giudice il potere 1) di disporre con ordinanza, in ogni stato e grado del procedimento, che si cancellino le espressioni sconvenienti od offensive, 2) di provvedere, con la sentenza che decide la causa, ad assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno anche non patrimoniale sofferto quando le espressioni offensive non riguardano l'oggetto della causa (comma 2).

Competenza a conoscere del danno. La giurisprudenza di legittimità ha precisato che la competenza a conoscere del danno derivante dall'uso di espressioni offensive e sconvenienti contenute negli atti del giudizio è funzionale ed inderogabile e spetta al giudice incaricato di conoscere del procedimento in cui sono stati redatti o depositati gli atti contenenti le espressioni incriminate. Pertanto, anche nel caso in cui l'espressione sconveniente si indirizzi direttamente al difensore di una delle parti, quest'ultimo, pur non essendo parte del giudizio, può e deve proporre l'azione di risarcimento danni soltanto nell'ambito del procedimento nei cui atti sono state inserite le medesime espressioni (cfr. Cass. n. 12134/1991; Cass. n. 10916/2001; Cass. n. 16121/2009)

Le uniche eccezioni alle su enunciate regole si hanno solo in ipotesi determinate, incompatibili con la possibilità di introdurre la domanda di risarcimento danni per le espressioni sconvenienti o offensive nell'ambito del medesimo procedimento, ossia: