I principi di massima.
"Il lavoro intramurario è del tutto equiparabile al lavoro ordinario anche ai fini previdenziali e le peculiarità del rapporto non rilevano in alcun modo ai fini della soluzione del problema relativo alla spettanza o meno della tutela previdenziale, per la quale occorre guardare alla natura e funzione della tutela medesima".
"Anche nella cessazione del lavoro intramurario per fine pena, lo stato di disoccupazione è involontario, essendo la cessazione del rapporto comunque estranea alla sfera di disponibilità del lavoratore; del resto, né la scarcerazione dipende dalla volontà del detenuto né il detenuto può rifiutarla, al fine di mantenere il rapporto di lavoro".
Nel nostro sistema penitenziario, il lavoro, oltre che essere una fonte di guadagno, è divenuto un dispositivo correzionale e disciplinare essenziale: esso assolve ad una funzione risocializzante dei detenuti che tramite il lavoro penitenziario fruiscono di una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative.
Per creare persone abili al rientro in società, la legge sancisce le tutele essenziali del lavoro: orario, riposo festivo, tutela assicurativa e previdenziale. Viene favorita, poi, l'apertura del carcere soggetti imprenditoriali pubblici e privati.
L'ordinamento penitenziario contempla due tipologie di lavoro: quello svolto all'interno degli istituti di pena e quello intramurario.
Quest'ultima tipologia presenta aspetti particolarmente problematici soprattutto in ordine all'individuazione della disciplina applicabile in caso di cessazione dell'attività lavorativa e ciò sia qualora la cessazione consegua alla scarcerazione dell'individuo, sia nel caso in cui lo stato di disoccupazione intervenga in stato di restrizione.
Con la sentenza n. 396 del 2024, la sezione lavoro della Corte di Cassazione ha riconosciuto il diritto del detenuto cessato dal servizio alla percezione della NASPI.
Il fatto.
Ad investire la Cassazione della controversia era stata L'INPS che, rimasta soccombente nei due gradi di merito, era stata condannata a corrispondere la NASPI ad un detenuto che aveva maturato il requisito contributivo e lavorativo di cui all'art. 3 del d.lgs. n. 22 del 2015.
Nel suo ricorso, l'ente previdenziale aveva evidenziato le peculiarità del lavoro carcerario intramurario quanto alla costituzione, retribuzione, disciplina, cessazione e, dunque, la non parificazione dello stesso con il lavoro del libero mercato.
L'INPS aveva perciò chiesto ai giudici di legittimità di stabilire se il lavoro in questione fosse un lavoro subordinato, se lo stesso avesse la ordinaria protezione previdenziale ed, infine, se la disoccupazione che consegue alla fine del trattamento penale possa essere considerata involontaria e consenta la tutela previdenziale richiesta.
La decisione della Cassazione.
La Suprema Corte ha preliminarmente tratteggiato le caratteristiche del lavoro carcerario intramurario, affermando che la durata delle prestazioni lavorative non può superare i limiti stabiliti dalle leggi vigenti in materia di lavoro e, alla stregua di tali leggi, sono garantiti il riposo festivo e la tutela assicurativa e previdenziale; che il lavoratore detenuto ha diritto alle ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi; che il compenso deve essere stabilito in relazione alla quantità e qualità del lavoro effettivamente prestato, alla organizzazione e al tipo di lavoro del detenuto in misura non inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi; che il lavoro intramurario è protetto con riferimento alla tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali; che la competenza a decidere sulle controversie concernenti i rapporti lavorativi dei detenuti spetta al giudice del lavoro e previdenziale.
Nonostante alcune peculiarità della disciplina relativa ad alcuni istituti e derivanti dall'interferenza del trattamento penitenziario, ha poi proseguito la Cassazione, la causa tipica del rapporto di lavoro – costituita dallo scambio tra attività lavorativa e remunerazione- resta centrale anche nel lavoro intramurario: anche qui, invero, la funzione economico sociale principale del rapporto lavorativo va vista nello scambio sinallagmatico tra prestazione lavorativa e compenso del lavoro.
Dunque, secondo il giudice di legittimità, il fine rieducativo del lavoro dei detenuti non influisce sui contenuti della prestazione e sulle modalità di svolgimento del rapporto: il rapporto di lavoro del detenuto alle dipendenze dell'Amministrazione penitenziaria va considerato come un ordinario rapporto di lavoro, nonostante le particolarità della regolamentazione normativa.
Infatti, hanno proseguito i decidenti, la rieducazione ed il reinserimento sociale, lungi dall'essere elementi che alterano lo schema causale del rapporto, costituiscono il fine del lavoro, l'auspicabile effetto dell'applicazione del detenuto ad un'attività lavorativa; in altri termini, è la prestazione di lavoro in sé che ha un potenziale rieducativo per i vari e diversi effetti che può produrre a favore della persona del detenuto (dal riempimento di un tempo altrimenti vuoto all'acquisizione di competenze professionali, al conseguimento di disponibilità economiche da destinare al mantenimento della famiglia ed al proprio futuro), tutti utili per agevolare il reinserimento della persona nella società libera e scongiurare effetti di isolamento e desocializzazione.
Quanto alla tutela previdenziale spettante ai lavoratori detenuti, la possibilità di riconoscere ai detenuti che prestano attività lavorativa in favore dell'istituto penitenziario deriva non tanto dalla già riferita equiparazione del lavoro intramurario a quello ordinario, quanto, piuttosto, dall'esame della disciplina generale e dei singoli istituti previdenziali ad essi spettanti.
La cassazione in proposito ha ricordato come l'art. 20, co. 17, O.P. preveda in generale l'applicazione al lavoratore detenuto della tutela previdenziale ed assistenziale mentre altre singole prestazioni sono riconosciute da altre norme, come, a titolo esemplificativo, gli assegni familiari e l'assistenza sanitaria.
Dall'esame della disciplina generale e dei singoli istituti, dunque, emerge che il lavoro intramurario è equiparato al lavoro subordinato anche ai fini previdenziali ed assistenziali, e che anzi le norme speciali previste sono norme di maggior favore.
Ricondotto, in generale, il lavoro del detenuto alle dipendenze dell'Amministrazione penitenziaria nel novero dei comuni rapporti di lavoro, ricordato che il richiamato art. 20 dell'O.P. garantisce ai detenuti la tutela assicurativa e previdenziale, ed escluso che la cessazione del rapporto lavorativo possa considerarsi volontaria, i giudici della cassazione hanno concluso che non consta alcuna ragione che renda il lavoro carcerario incompatibile con il riconoscimento della NASPI in caso di perdita del primo.
Da un lato, conclude sul punto la sentenza, va sottolineato che è fatto del tutto pacifico che l'Amministrazione penitenziaria versa all'INPS i contributi per la disoccupazione anche per i detenuti lavoratori, elemento questo utile a corroborare la soluzione che riconosce all'ex-detenuto la tutela previdenziale richiesta.
Dall'altro lato, non è rilevante che l'Amministrazione penitenziaria non persegua scopi di lucro, essendo pacifico che la NASPI spetta a tutti i lavoratori di cui all'art. 1 del d.lgs. n. 22, anche se dipendenti da enti che non perseguono scopi di lucro, quali, ad esempio, gli Enti del terzo settore.