Di A.N.F.T. su Giovedì, 12 Luglio 2018
Categoria: Legge e Diritto

CARCERI Quando il lavoro tra le sbarre cambia il volto dei detenuti

 Il lavoro costituisce lo strumento principale del trattamento penitenziario avente come fine ultimo la rieducazione e la risocializzazione del condannato in attuazione del disposto costituzionale secondo cui "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" (art. 27 terzo comma). L'art. 15 della legge contenente le norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà (l. 354 del 26 luglio 1975) prevede che il trattamento penitenziario debba essere svolto avvalendosi "principalmente dell'istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno", ed inoltre che "ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all'internato [sia] assicurato il lavoro". L'art 20 ord. pen. stabilisce l'obbligatorietà del lavoro per i soli condannati, infatti tale obbligo non può riguardare gli imputati i quali, vigendo la presunzione d'innocenza, non devono essere sottoposti al trattamento penitenziario, ma possono essere ammessi a svolgere attività lavorative soltanto laddove ne facessero richiesta e purché non sussistano giustificati motivi o contrarie disposizioni dell'autorità giudiziaria (art. 15 terzo comma, ord. pen.). Notevole attenzione al lavoro in esecuzione pena è posta anche dalle Regole penitenziarie europee approvate con Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa R 3 del 12 febbraio 1987, e recentemente integrate da un'ulteriore Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa. Tale documento, definito come "carta dei diritti dei detenuti", ha ispirato anche la legislazione italiana in materia penitenziaria, ponendo i tratti salienti di un trattamento penitenziario che sia conforme al principio di umanità della pena, dunque non lesivo della dignità della persona umana, e finalizzato non alla segregazione ed esclusione del detenuto dalla società ma al suo reinserimento. Strumento fondamentale a tal fine è il lavoro, concepito come anello di congiungimento fra il momento dell'esecuzione pena e il ritorno in società, pertanto, il lavoro è visto come elemento principale del trattamento penitenziario in quanto, abituando il detenuto a svolgere un'attività produttiva, non solo contribuisce al suo sostentamento ed eventualmente fornisce una fonte di sostegno economico alla famiglia, ma soprattutto favorisce l'acquisizione da parte dello stesso di una maggiore consapevolezza delle proprie capacità e della coscienza del proprio ruolo sociale. A tal fine è necessario che si tratti di un lavoro produttivo, gratificante e in particolare remunerato.

 In secondo luogo, in prospettiva del reinserimento sociale a seguito della detenzione, il lavoro in istituto dovrebbe essere organizzato in maniera tale da far acquisire al detenuto delle capacità professionali spendibili all'esterno così da essere in grado di reggere alla competizione che caratterizza il mercato occupazionale oggigiorno. In tal senso il lavoro assolve soprattutto una funzione di prevenzione speciale, anti-recidivante, la possibilità, infatti, di avere una fonte di sostentamento e di guadagno "alternativa" e socialmente accettata e incoraggiata, dovrebbe fungere da deterrente al compimento di ulteriori reati,rappresentando, quindi, motivo di sicurezza anche per la società: un detenuto che non torna a delinquere rappresenta un beneficio per tutti i cittadini.   

Certo sorge spontaneo chiedersi, ma l'opinione pubblica capisce l'equazione lavoro-sicurezza sociale.

Io dico di sì. Far lavorare i detenuti porta consenso sociale, la rieducazione delle persone in esecuzione penale è efficiente sia per loro stessi sia per la società e il lavoro è la forma più adeguata per perseguirla è poi sbagliato pensare che il detenuto debba passare il tempo solo aspettando la libertà. Il carcere è un periodo della vita. Va sfruttato, va utilizzato per crescere. E dovere dell'amministrazione penitenziaria è dare questa opportunità. El'esperienza lavorativa, infatti, aumenta il grado di stima dei detenuti consentendo una riscoperta della loro dignità, permette il recupero dei legami familiari favorendo una rinnovata socialità e, infine, incide sulla recidiva migliorando i comportamenti individuali e le abitudini sociali. Per questo, ritengo che tutti i progetti lavorativi rappresentano un'occasione unica per i carcerati di sperimentare un contesto reale con cui misurarsi in vista del reinserimento sociale, che è garantito dall'articolo 27, terzo comma, della Costituzione. Nel concetto di rieducazione, che è uno degli scopi per non dire l'obiettivo principale della pena, è insito anche quello del reinserimento sociale. Al punto che si dice, ad esempio, che l'ergastolo è costituzionalmente legittimo in quanto può venir meno a seguito della concessione di benefici, come ad esempio la liberazione condizionale. Una pena eterna non sarebbe rieducativa, perchè preluderebbe al reinserimento sociale del condannato, garantito a qualsiasi persona accetti il trattamento penitenziario. Infatti questo prevede il riappacificamento del detenuto con quei valori che ha leso commettendo il reato. Se uno non vuole aderire a questo percorso può anche rimanere in galera per tutta la vita, dice la Corte costituzionale, ma se uno vuole, tramite il trattamento può aspirare al reinserimento. E uno degli elementi di punta del trattamento penitenziario è appunto proprio il lavoro.    Il lavoro in carcere può essere svolto sia alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, sia alle dipendenze di imprese che vengono da fuori, come fanno al carcere di Padova, la cooperativa Giotto; a Rebibbial'onlus Semi di Libertà; a Ragusa, la cooperativa sociale Sprigioniamo Sapori;  all' Ucciardone,  la rete di imprese FreedHome; a Sant'Angelo dei Lombardi, la cooperativa socialeIl Germoglio; solo per citarne alcune, che con la loro azione riescono ad ottenere un utile di impresa anche nelle difficili condizioni in cui si può lavorare all'interno di un carcere. Il lavoro, quindi, come riabilitazione e percorso costruttivo. È appunto quanto proposto e promosso da tutte le imprese carcerarie che si muovono all'interno degli istituti penitenziari. Un progetto che offre lavoro e che fa dell'economia carceraria, un punto da cui ripartire e ricominciare. 

 Famosi per il livello di innovazione i progetti legati al cibo sono diffusi in molte strutture detentive italiane. Il ristorante "InGalera" del carcere di Bollate e il progetto "Cene Galeotte" della casa di reclusione di Volterra sono tra i più noti esempi dei risultati che si possono ottenere con un percorso professionalizzante in ambito ristorativo.

La pasticceria "Giotto" del carcere di Padova è una realtà affermata che dispone di una rete di punti vendita in tutta Italia e di uno shop online dove si possono acquistare panettoni, colombe, torroni. Sul sito di Freedhome e nello store torinese in via Milano si possono comprare prodotti fatti in carcere dalle tredici cooperative che partecipano al progetto. E come nel caso della Banda Biscotti, ispirato ai personaggi Disney di Paperopoli, una biscotteria artigianale che opera all'interno delle carceri di Verbania e Saluzzo.  Per concludere vorrei affermare che  il lavoro è sicuramente uno degli elementi fondamentali perché si possa uscire dal carcere migliori rispetto a come si è entrati. Studi empirici attestano che la recidiva per i detenuti che intraprendono un percorso lavorativo in carcere si abbassi notevolmente. Parliamo, infatti, del 60-70% di diminuzione di ricadute in comportamenti scorretti dal punto di vista legislativo, per un'idea di carcere che non corrisponda a "porte girevoli" dove si esce per poi ritornare. Diversi i dati laddove questo percorso di riabilitazione lavorativa non avviene: il tasso di recidiva si abbassa, in tal caso, del 20%". Questi i numeri che, ma la questione va, ovviamente, oltre i puri dati. "Vuol dire, inoltre, investire non solo sul lavoro, già di per sé cosa giusta, ma anche sulla sicurezza: donando ai carcerati una seconda possibilità si dà loro un'opportunità da portare all'esterno per allontanarsi da attività non legali, legate alla delinquenza. Riabilitare al lavoro i carcerati significa," creare relazioni sane, ri-costruire un ponte con la società e un nuovo rapporto con l'esterno". Arrendersi alla convinzione che il recidivismo appartenga ai fenomeni  irriducibili e che la restituzione alla società libera di un numero significativo di condannati possa avvenire soltanto tramite sporadici provvedimenti d'indulto o di depenalizzazione significherebbe identificare il carcere come un mero luogo di  espiazione di una pena afflittiva, svuotata da ogni funzione migliorativa del reo.   Per questo l'A.N.F.T. è fermamente convinta che la restituzione di una reale centralità al ruolo dei Funzionari Giuridico-Pedagogici, perno centrale nelle attività di risocializzazione del reo, possa contribuire a rendere il sistema penitenziario nella sua globalità un contesto educativo sufficientemente proficuo nelle dinamiche e nelle interazioni di ogni momento della quotidianità carceraria, favorendo in modo più efficace il contrasto dei modelli avversi acquisiti precedentemente dal detenuto nei diversi ambiti del proprio vissuto.

Funzionario Giuridico Pedagogico

           Rosetta Noto