Di Rosalba Sblendorio su Sabato, 02 Ottobre 2021
Categoria: Deontologia forense: diritti e doveri degli avvocati

Avvocati: nella valutazione della gravità degli illeciti disciplinari, non sempre è adeguata la radiazione

L'avvocato deve mettere immediatamente a disposizione della parte assistita le somme riscosse per conto della stessaLa violazione del suddetto comporta l'applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio dell'attività professionale da uno a tre anni (art. 31 CDF). Ne consegue che nell'ambito della valutazione del comportamento complessivo dell'incolpato sulla scorta dei criteri di cui all'art. 21 codice deontologico forense (quali gravità del fatto, sussistenza di dolo, condotte successive dell'incolpato, circostanze soggettive ed oggettive nel cui contesto sono state consumate le violazioni, pregiudizio subìto dalla parte assistita, compromissione dell'immagine della classe forense, vita professionale e precedenti disciplinari definitivi), la sanzione adeguata e proporzionata alla su citata violazione deontologica, in caso di gravità del comportamento dell'avvocato e in presenza di ulteriori condotte illecite, è la sospensione dall'esercizio dell'attività professionale per la durata di anni tre anni (Cnf, 27 maggio 2020 n. 48) e non la radiazione dall'albo.

Questo ha ribadito il Consiglio nazionale forense (Cnf), con decisione n. 118 del 22 maggio 2021.

Ma analizziamo nel dettaglio la questione.

I fatti del procedimento disciplinare

Il ricorrente è stato destinatario di un procedimento disciplinare in quanto incolpato di aver violato gli artt. 9 comma 1, 10, 26 comma 3, 27 comma 3, 30 comma 2, 31 comma 1, CDF, per non aver rispettato i doveri di correttezza, probità, dignità, decoro e diligenza nello espletamento dell'attività professionale, non svolgendola nell'interesse della parte assistita, effettuando una transazione con la controparte senza averne reso edotto il proprio assistito e senza informarlo delle trattative e delle somme ricevute, trattenendo, senza il consenso del proprio cliente, somme ricevute per conto dello stesso e senza mettergli a disposizione quanto riscosso. 

Il Consiglio distrettuale di disciplina (CDD), ha ritenuto provata la condotta contestata al ricorrente, ossia ha ritenuto provato l'infedele adempimento del mandato da parte dell'incolpato per aver:

Sotto il profilo del trattamento sanzionatorio, il CDD ha rilevato che le condotte poste in essere dall'incolpato rappresentano - per modalità e numero - "espressione della massima offensività deontologica". Per tal verso, visti anche i procedimenti disciplinari pendenti in capo ricorrente, ha comminato la sanzione edittale prevista per i casi più gravi ex art. 22, comma 2 lett. d), CDF, ossia la radiazione.

Il caso è giunto dinanzi al Cnf.

Ripercorriamo l'iter logico-giuridico di quest'ultima autorità. 

La decisione del Cnf

Innanzitutto, il Cnf conferma l'accertamento di responsabilità disciplinare effettuato dal CDD dato che quest'accertamento risulta fondato su inconfutabili risultanze documentali e istruttorie. Ne consegue, pertanto, la necessità di esaminare solo il trattamento sanzionatorio riservato al ricorrente, oggetto di impugnazione. In punto si fa rilevare che l'incolpato ha chiesto la rideterminazione in senso più mite della sanzione inflitta dal CDD, soprattutto in considerazione della impossibilità di tener conto dei procedimenti disciplinari pendenti alla data della decisione dato che dei n. 16 precedenti procedimenti disciplinari a suo carico solo n. 3 risultavano conclusi in via definitiva: uno con sanzione di tipo formale e due con sanzioni sospensive in entrambi i casi per la durata di mesi due. In considerazione di questa circostanza, secondo il ricorrente appare eccessivo il ricorso alla sanzione estrema, consistente nell'esclusione definitiva dall'Albo. Dello stesso avviso è il Cnf. A parere di quest'ultimo, infatti, nel caso di specie non andava comminata la sanzione della radiazione mediante l'attivazione del meccanismo di cui all'art. 22, comma 2 lett. d), CDF. E ciò in considerazione del fatto che le condotte gravi contestate sono punite in via edittale con sanzioni di tipo formale (artt. 26, comma 3, e 27, comma 6, CDF) o con la sospensione dall'esercizio dell'attività professionale da sei mesi a un anno (art. 30, comma 2, CDF) e, nel caso della condotta di omessa messa a disposizione della parte assistita delle somme riscosse per conto della stessa, con la sanzione, compresa tra il minimo (un anno) e il massimo (tre anni), della sospensione dall'esercizio dell'attività professionale. In definitiva, nell'ambito della valutazione del comportamento complessivo dell'incolpato sulla scorta dei criteri di cui all'art. 21 CDF (gravità del fatto, sussistenza di dolo, condotte successive dell'incolpato, circostanze soggettive ed oggettive nel cui contesto sono state consumate le violazioni, pregiudizio subìto dalla parte assistita, compromissione dell'immagine della classe forense, vita professionale e precedenti disciplinari definitivi), il Cnf ritiene che sanzione adeguata e proporzionata alle violazioni deontologiche commesse dal ricorrente, così come accertate, sia il massimo edittale della sanzione prevista per la violazione dell'art. 31, comma 1, CDF, ossia la sospensione dall'esercizio dell'attività professionale per la durata di anni tre (Cnf 27 maggio 2020 n. 48).

Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, pertanto, il Cnf, in parziale riforma della decisione impugnata, ha irrogato al ricorrente la sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio dell'attività professionale per la durata di anni tre. 

Messaggi correlati