Svolgere attività extra lavorativa durante l´orario di lavoro, può ledere gli interessi del datore di lavoro, anche se tale attività non interferisce con quella principale. In tal modo, infatti, vengono impiegate per altri fini le energie del lavoratore, il quale ottiene un profitto ingiusto, considerata la corresponsione della retribuzione che non risulta più giustificata, e per di più provoca un danno economico al datore.
Questa la pronuncia della sezione Lavoro della Cassazione, sentenza n. 13199/17, depositata il 25 Maggio.
Un dipendente di un´azienda di telecomunicazioni, pensava bene di arrotondare lo stipendio, dedicandosi, durante l´orario di lavoro, ad altra attività. E precisamente, recandosi presso la società di cui era socio, con l´auto aziendale, vendeva biancheria intima all´ interno degli uffici, prendendo servizio come se non bastasse, con notevole ritardo e troppo spesso. Non potendolo propriamente definire un dipendente modello, la società lo aveva licenziato, avendo inevitabilmente riscontrato un calo della produttività.
Il Tribunale di Roma convertiva il recesso per giusta causa, in licenziamento per giustificato motivo soggettivo, sulla base di una considerazione, ovvero sia che attuando una condotta di tal fatta, il lavoratore avrebbe posto in essere un grave inadempiuto della prestazione lavorativa, e non leso il rapporto di fiducia con il suo datore di lavoro. Le testimonianze de relato, ossia acquisite solo indirettamente dalla società per provare come la condotta in oggetto creava disfunzioni a livello gestionale, davano modo alla Corte d´Appello di ridimensionare le contestazioni rivolte al lavoratore. Trattandosi, per di più, di due occupazioni totalmente differenti, veniva esclusa dalla stessa Corte, l´interferenza di un´attività sull´altra, non potendosi così configurare illecito disciplinare. Considerata inoltre, la sporadicità con cui veniva utilizzata la macchina aziendale e la flessibilità dell´orario di lavoro, ciò non poteva far scattare una sanzione espulsiva, ma solo una conservativa. Adita la Cassazione dalla Società soccombente in appello, veniva chiamata a valutare la potenza lesiva della condotta del lavoratore all´area di cui egli stesso ricopriva l´ importante ruolo di manager. L´aver speso le sue energie in favore di un´altra società, e perciò a scapito della ricorrente, avrebbe leso l´obbligo di fedeltà, correttezza e buona fede. Ai fini del giudizio sulla proporzionalità della sanzione espulsiva, tale elemento non era stato considerato in appello, pur essendoci un divieto, previsto nel Contratto collettivo nazionale del lavoro, in capo al lavoratore di svolgere altre attività durante l´orario di lavoro.
La Suprema Corte ha cassato la sentenza e accolto il ricorso, richiamando consistente giurisprudenza (Cass. 31.10.2013 n. 24574; Cass. 30.5.2014 n. 12195; Cass. 2.2.2009 n. 2579; Cass. 14.1.2003 n. 454), con cui più volte gli Ermellini hanno fatto applicazione del seguente principio di diritto. Se pur episodica, la condotta del lavoratore è idonea a ledere il vincolo di fiducia che lo lega al datore. Laddove poi si tratti di un manager, e quindi di un soggetto che agisce con una maggiore autonomia e fuori dal controllo del datore, a maggior ragione quest´ultimo deve poter contare sulla sua correttezza e buona fede. Proprio perché caratterizzato da grave inadempimento (art 2119 c.c.), il comportamento, anche se singolo, legittima la sanzione espulsiva, essendo sufficiente da sé, e non rilevando l´assenza di un serie di comportamenti simili, o seppur presenti non contraddistinti da tale gravità. Come nelle buone, anche nelle cattive cose, non la quantità, ma la qualità.
Paola Moscuzza, autrice di questo articolo, si è laureata in Giurisprudenza, presso l´Università degli Studi di Messina, nell´anno 2015.
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