Con sentenza n. 16773 del 26 giugno 2018, la Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che il contratto con cui è affidata l'esecuzione di un'opera ad un architetto (o comunque ad altro professionista) può contenere una clausola che attribuisce il diritto ad un compenso aggiuntivo in caso vengano postulati "consistenti varianti". Tale clausola, tuttavia, non essendo una clausola generale di previsione di concessione di incarichi per varianti, non costituisce una prova del fatto che tali incarichi vengano, effettivamente, commissionati al predetto professionista. Con l'ovvia conseguenza che è quest'ultimo che, in un eventuale giudizio, deve fornire la prova dell'esistenza di un incarico, da parte della committente, per l'esecuzione di modifiche o varianti alle attività comprese nel contratto originario. Ma vediamo nel dettaglio la questione sottoposta all'esame dei Giudici di legittimità. Ai ricorrenti, nella qualità di architetti, è stato commissionato un incarico di progettazione architettonica relativo alla sistemazione di una vasta superficie urbana comunale. Tale incarico:
- è stato conferito ai professionisti ricorrenti all'esito del concorso nazionale indetto per la progettazione suddetta;
- è stato formalizzato in un'apposita convenzione.
È accaduto che, nel corso della realizzazione di tale progetto, la committente, a dire dei ricorrenti, ha provveduto a richiedere loro numerose modifiche e varianti all'opera originaria. Successivamente, essendo stato sciolto il contratto per intervenuto recesso (questione, questa, oggetto di altra controversia), i professionisti hanno chiesto il pagamento del compenso sia per i lavori contemplati nel contratto che per quelli extracontratto.
Il caso è giunto all'attenzione della Corte di Cassazione. Nella fattispecie di cui stiamo discorrendo, innanzitutto, i Giudici di legittimità partono dall'esame del diverso regime probatorio che si applica in caso di variazioni in corso d'opera. E ciò a seconda che queste variazioni siano state eseguite per iniziativa della committente o per iniziativa del professionista appaltatore. Orbene, nel primo caso trova applicazione l'art. 1659 codice civile (variazioni concordate del progetto), secondo cui le modifiche di un'opera possono essere apportate solo previa autorizzazione scritta del committente; nell'altro trova applicazione l'art. 1661 codice civile (variazioni ordinate dal committente), secondo cui l'appaltatore deve provare che dette modifiche siano state richieste dal committente, qualora non sia esistente l'autorizzazione scritta. La prova, in questi casi, può essere fornita dal professionista con tutti i mezzi consentiti, ivi comprese le presunzioni. Le disposizioni trovano applicazione anche ai contratti d'opera, come quello di cui alla questione in esame. E ciò in virtù del richiamo operato dall'art. 2222 codice civile (contratto d'opera). Tornando alla fattispecie di cui sono stati investiti i Giudici di legittimità, a parere di questi ultimi, la questione lamentata dai ricorrenti rientra proprio nell'ambito di operatività del succitato art. 1661. Infatti, gli architetti non hanno fornita adeguata prova del fatto che:
- le modifiche apportate al progetto iniziale siano state richieste dalla committente;
- le predette modifiche siano state di una tale consistenza da far sorgere, in capo ai ricorrenti, il diritto ad un compenso aggiuntivo.
Secondo la Corte di Cassazione, infatti, i mezzi probatori forniti dai professionisti non sono stati sufficienti a dimostrare quanto sopra. Né la clausola prevista dal contratto, che statuisce che "gli eventuali incarichi aggiuntivi saranno pagati a tariffa", è prova sufficiente per dimostrare, a priori, la commissione delle varianti in corso d'opera. Una prova, questa, peraltro, che sarebbe stata necessaria ancor più laddove si consideri che lo stesso art. 1659 codice civile, secondo comma, afferma che "anche quando le modificazioni sono state autorizzate, l'appaltatore, se il prezzo dell'intera opera è stato determinato globalmente, non ha diritto a compenso per le variazioni o per le aggiunte, salvo diversa pattuizione". Proprio al fine di evitare che il compenso dei ricorrenti fosse incluso nel compenso originariamente stabilito, in forza della clausola di salvezza contenuta nella norma appena citata ("salvo diversa pattuizione"), sarebbe stato doveroso, per i professionisti ricorrenti, dimostrare che, per le varianti in corso d'opera, fosse stato pattuito un compenso aggiuntivo. Il che, secondo la Corte di Cassazione, non è accaduto. Tale carenza probatoria, pertanto, giustificherebbe la decisione di non riconoscere, in favore dei ricorrenti, i compensi per le modifiche apportate in corso d'opera; modifiche, queste che, quindi, vanno considerate parte integrante del progetto originario e pertanto già retribuite mediante il compenso forfetario ivi stabilito. Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, poiché gli architetti non hanno maturato alcun diritto al compenso aggiuntivo, questi ultimi non possono formulare alcuna richiesta di indennizzo per indebito arricchimento in danno della committente. E ciò in considerazione del fatto che non si è verificata nessuna diminuizione nella sfera patrimoniale dei ricorrenti, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2041 codice civile (azione generale di arricchimento). In virtù di questo iter logico-giuridico, i Giudici di legittimità hanno rigettato il ricorso, cassando la sentenza impugnata senza rinvio.