L'avvocato deve astenersi dal prestare l'attività professionale quando questa si pone in conflitto con gli interessi del suo assistito. Un dovere di astensione, questo, che va osservato anche se gli interessi dell'assistito di un un legale confliggano con quelli dei colleghi che siano soci della stessa società di avvocati o dell'associazione professionale o che esercitino negli stessi locali e collaborino professionalmente in maniera non occasionale (art. 24 codice deontologico forense). Ne consegue che costituisce illecito disciplinare l'avvocato che in qualità di danneggiato di un incidente stradale sia controparte di una parte che è assistita da un collega che è suo collaboratore esterno. In tali casi, infatti, sussiste un conflitto di interessi il cui carattere reale o meramente potenziale non ha rilevanza ai fini del procedimento disciplinare.
Questo è quanto ha statuito la Corte di Cassazione con sentenza n. 12902 del 13 maggio 2021.
Ma analizziamo nel dettaglio la questione.
I fatti di causa
Il ricorrente, assistito da una collaboratrice esterna del suo studio, per i danni subiti a seguito di un incidente stradale, ha chiamato in giudizio la compagnia di assicurazione e il danneggiante, al fine di ottenere il risarcimento del residuo 50% del danno. È accaduto che il convenuto danneggiante si è costituito, rappresentato e difeso da un'altra collaboratrice dell'avvocato ricorrente. Il legale del convenuto, costituendosi in giudizio, ha riconosciuto la piena responsabilità del proprio assistito per l'incidente occorso, chiedendo l'accertamento della fondatezza della domanda proposta da parte attrice. La compagnia di assicurazioni ha inviato un esposto al Consiglio dell'Ordine degli Avvocati, nei confronti dell'avvocato del convenuto danneggiante per accertare eventuali condotte deontologicamente scorrette della professionista, per essersi la stessa costituita per il convenuto, eleggendo domicilio presso lo studio dell'attore e ammettendo, per di più, la responsabilità del proprio assistito. Questa professionista - a seguito di tale fatto – ha presentato denuncia nei confronti dell'avvocato ricorrente, negando di essere l'autrice della comparsa di risposta e disconoscendo le firme apposte in calce al mandato.
Il ricorrente è stato assolto perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato. Ciononostante, questi, in sede di procedimento disciplinare, nel frattempo avviato nei suoi confronti, è stato destinatario un provvedimento ad hoc.
Il caso è giunto dinanzi alla Corte di Cassazione.
Ripercorriamo l'iter logico-giuridico di quest'ultima autorità giudiziaria.
La decisione della SC
Innanzitutto appare opportuno far rilevare che la norma di cui all'art. 24 codice deontologico forense prevede espressamente che l'avvocato debba astenersi dal prestare l'attività professionale quando questa sia in conflitto con gli interessi della parte assistita. Tale dovere va osservato anche quanto gli interessi dei clienti confliggono con quelli dei collaboratori non occasionali del professionista. Da tanto discende che il dovere in questione si configura come obbligo assoluto di astensione che trova fondamento nell'esigenza di garantire la massima tutela possibile agli interessi in gioco ed è la stessa norma deontologica a fare tale valutazione, con l'ovvia conseguenza che l'interprete è tenuto soltanto ad accertare il fatto che costituisce il presupposto di quell'effetto, senza indagare se il conflitto abbia carattere reale o meramente potenziale (Cass. Sez. U., 10/01/2006, n. 134). In queste situazioni di conflitto, laddove un avvocato assuma la difesa di due parti, tra loro in conflitto anche solo potenziale di interessi, la parte che abbia conferito per seconda la procura al legale dovrà ritenersi non costituita in giudizio (Cass., 19/03/1984, n. 1860; Cass., 14/07/2015, n. 14634; Cass., 08/09/2017, n. 20950). Orbene, nel caso di specie, lo stesso ricorrente ha affermato che all'epoca dei fatti:
- il legale che ha formalmente assistito il convenuto danneggiante, era «ancora una sua collaboratrice, avendo avuto in corso diverse domiciliazioni presso lo studio dello stesso ricorrente per alcuni procedimenti civili»;
- l'avvocato del ricorrente, era anche lei una sua collaboratrice esterna;
- «di avere predisposto una bozza della comparsa di risposta» per il convenuto danneggiante.
Queste circostanze rilevano in modo palese i) la sussistenza di un conflitto di interessi, sebbene apparente, ii) la conseguente violazione della norma deontologica su citata. Ne discende la correttezza della decisione del Consiglio nazionale forense nella parte in cui ha ritenuto ravvisabile, nella specie, un conflitto potenziale di interessi, per avere l'incolpato gestito - tramite il proprio studio - sia la propria posizione personale di attore che quella del convenuto. La correttezza della decisione in questione non viene meno dal fatto che il ricorrente è stato assolto in sede penale dal momento l'assoluzione è stata determinata dal venir meno della previsione normativa che considerava quel fatto come reato. A tal proposito, la giurisprudenza è pacifica nell'affermare che nel caso in cui il fatto non corrisponda a una fattispecie incriminatrice in ragione di un'assenza di previsione normativa, o di una successiva abrogazione o depenalizzazione della norma, o di un'intervenuta dichiarazione integrale di incostituzionalità, l'imputato va assolto perché «il fatto non è previsto dalla legge come reato», permanendo in tutti tali casi la possibile rilevanza del fatto in sede civile, o disciplinare (Cass. Sez. U., 25/05/2011, n. 37954; Cass., 26/06/2014, n. 36859). In buona sostanza, dinanzi a questo tipo di assoluzione, il fatto è suscettibile di un'autonoma valutazione del giudice disciplinare, come è accaduto nel caso di specie.
Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, pertanto, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso nei confronti del Consiglio Nazionale Forense e del Consiglio Distrettuale di disciplina e lo ha rigettato nei confronti degli altri intimati.